L’orrore che appartiene alla Storia: Suspiria di Guadagnino

L’arrivo è a Berlino, non Monaco. L’anno è il 1977, lo stesso in cui Argento consegnava il suo Suspiria alla storia del cinema e lo stesso in cui i dirottatori palestinesi del Boeing Lufthansa chiedevano la liberazione dei terroristi della RAF. A differenza della Suzy Bannion argentiana, che atterrava a Monaco, la Susie di Dakota Johnson arriva dal lontano Ohio nella città solcata dal Muro, figlia di una famiglia amish rigettata dalla madre come un peccato, diretta verso la casa della danza di Madame Blanc, sacerdotessa di un rito chiamato “Volk”, sotto i cuoi passi si cela il culto delle Tre Madri, Lacrimorum Tenebrarum e, appunto, Suspiriorum. Le coordinate sono queste, Guadagnino le dispone con precisione sulla scena del suo cosiddetto remake di Suspiria (in concorso a Venezia 75), circoscrivendo in un tempo preciso, storico, il magnifico lascito argentiano, che invece si liberava nell’elaborazione psicotica del mito e nella pulsione cromatica creata dal grande Luciano Tovoli.

Le streghe sopra Berlino danzano insomma in un mondo che appartiene alla Storia, come se Guadagnino volesse evocare un presente necessario a inscrivere la ragione del male che sta mostrando. Prima ancora del gotico gioco delle Madri, che germinano tra le mura del palazzo di Madame Blanc, c’è lo schema bipolare su cui il mondo si struttura: diviso tra l’Est e l’Ovest, in una dicotomia che proietta sul presente la memoria bellica affidata alla sottotrama offerta dal dolore del Dottor Klemperer, lo psichiatra che ha in cura Patricia e che ancora cerca la moglie dispersa durante una fuga non realizzata: [spoiler alert] lui è il “testimone” da immergere nel profondo rosso del sabba finale, lui è la vittima da liberare in quella pacificata rimozione della memoria che poi è il vero, terribile dono, la più autentica condanna cui la Madre benedicente (occhio alla post-credits scene) consegna il nostro Presente… Il fatto stesso che Guadagnino ambienti il suo ripensamento del capolavoro argentiano nell’anno stesso in cui quel film vide la luce sembra quasi voler segnare un indice di innesto della dimensione onirico-ossessiva voluta da Argento in un piano più concreto, materiale, storico. E infatti Guadagnino inverte sapientemente tutti i segni del Suspiria di Argento: tanto quello era un’esplosione psicotica di angosce indefinite, colori impazziti, spazio smaterializzato, tanto questo è un grumo di paure storicamente strutturate, cromatismi introversi e terragni, geometrie spaziali precise, ossessive. C’è quel Muro che occupa la scena sin dall’arrivo di Susie a Berlino, barriera che si staglia di fronte all’antico palazzo che ospita la comune di danza di Madame Blanc. Nessuna esplosione di colori, follia omicida, fughe nel bosco sotto la pioggia: qui le paure e la morte di Patricia vengono subito consegnate agli appunti e alla ricerca del Dottor Klemperer (a proposito, provate a immaginare chi è davvero il fantomatico Lutz Ebersdorf che lo interpreta e una chiave di lettura in più magari verrà fuori…).

Tutto corrisponde a una predisposizione delle cose cui aderisce la stessa Susie, coreografia che porta nel mondo il sabba sotterraneo che sorregge la realtà in cui tutti sono calati. Guadagnino spinge il film verso un finale che esalta la ritualità e la consegna alla parossistica rigenerazione che lo attende, alla dispersione nel mondo sotto forma di nuova pace: un sabba virato in rosso che scardina la compostezza del film in un grandguignolesco teatro degli orrori, in cui i corpi si assommano e si rivelano. La Madame Blanc di Tilda Swinton è sacerdotessa di se stessa, una e trina come le Madri, come la putrescente Madame Markos che giace tra le assi del pavimento. La potenza di quest’altro Suspiria sta tutta nella gestione logica, nell’ordine degli elementi, come se Guadagnino avesse voluto compiere lo sforzo di far precipitare sulla Terra, nella Storia, tra la realtà degli uomini, l’astrazione pura offerta quarant’anni fa da Dario Argento.