Siamo a Séte, sulla costa occitana della Francia meridionale, negli stessi luoghi in cui era ambientato Cous Cous. L’estate è quella del 1994, quando il mondo non era ancora stato travolto dalla paura e la convivenza etnica era una realtà assodata, quasi naturale. Amin, un ragazzo franco-tunisino bello e pacato, torna a casa da Parigi, dove studia da sceneggiatore e si forma come fotografo, per passare l’estate in famiglia. Lì ritrova la madre, che gestisce un ristorante assieme alla sorella, il cugino Toni, donnaiolo irredento che ha una relazione con Ophélie, (forse) amore segreto del protagonista e promessa sposa di un soldato in missione, e una schiera di vivaci e coloratissimi parenti che bivacca tra le sale del ristorante, il bar accanto e le strade vitali e rumorose della cittadina francese. Amin, nella scena iniziale del film, spia fortuitamente Toni e Ophélie che fanno l’amore: uno sguardo esterno che subito si scioglie e ci catapulta, dopo pochi minuti, nella sarabanda di personaggi e storie che Abdellatif Kechiche descrive in maniera ossessivamente immersiva, lasciando da parte struttura narrativa e oggettività per entrare mani e piedi nella quotidiana routine dei protagonisti. La trama del film è quasi inesistente, una sinossi sarebbe irrisoria e fuorviante. Kechiche si cala nel racconto di una generazione energica e spensierata, segue i suoi ventenni (a cui presto si aggiungono due giovani turiste rimorchiate in spiaggia e una serie di altri ciarlieri e colorati conoscenti) durante le giornate al mare, gli spaghetti consumati sulla sabbia (e nessun regista al mondo ha la capacità di descrivere l’atto naturale del nutrirsi con la stessa carnale sensualità di Kechiche), le serate al bar e in discoteca, riempite di fiumi di scherzi, di parole, di alcol, di musica, di seduzione. Mektoub, My Love: Canto Uno (in Concorso) prosegue il discorso stilistico di La vita di Adele, eliminando la linearità della storia d’amore per trasformare il racconto in pura polifonia di immagini, in cui le coordinate temporali si dilatano per divenire un distillato fluido narrativo.
Il protagonista Amin – che è l’unico con uno sguardo inizialmente esterno e che sembra rappresentare un ipotetico specchio del regista, anche se il film si ispira a un romanzo di François Bégaudeau, già sceneggiatore di La classe di Laurent Cantet – ci guida in questo labirinto di corpi, in questo sincopato scorrere del tempo, in questo vitalismo tachicardico che impronta la vita dei personaggi. Kechiche ci narra di un tempo quasi primigenio, di una semplicità relazionale che esprime purezza, di un diverso impulso naturale. Arriva a incorniciare nel suo film un singolo momento di (e)stasi: il parto di alcune pecore che Amin vuole fotografare. E quella sospensione, accompagnata da Mozart, assume quasi un carattere sacrale, che in nessun modo contrasta con lo spirito tutto terreno del film: la mistica concreta, umana ancor più che umanista, di Kechiche tratta ugualmente il mistero della nascita e il dimenarsi catartico nelle discoteche, entrambe espressioni di una vita naturale e libera. I rapporti generazionali, gli impasti linguistici, l’importanza di una collettività estroversa ed esplosa raccontano un passato in cui cercare gli stimoli per un futuro migliore: anche questo dà un senso quasi politico – o, meglio, idealista – al film. Ma l’aspetto più sensazionale di questo film strabiliante e magnifico è l’adesione corporea alla gioventù che racconta. Non ci sono piagnistei e paternalismi: i ventenni che Kechiche mette in scena – facendoci entrare quasi fisicamente in mezzo a loro nella sbalorditiva alternanza di piani sequenza e scene montate con una grammatica mai scontata e a tratti vertiginosa – sono gonfi di vita, desiderosi di sesso, di cibo, di sole. Sono belli di una bellezza emozionante e mitica (e incredibile è la naturalezza che Kechiche riesce a strappare ai suoi giovani attori e la sensualità con cui filma i loro corpi), fatti di carne e vogliosi di amore. Non c’è traccia di voyeurismo ma una assoluta e completa adesione ai desideri e alla fisicità strabordante dei personaggi. Kechiche compie il miracolo: non si tratta di coinvolgerci con il suo racconto ma di includerci. Noi siamo – o siamo stati, o vorremmo ancora essere o vorremmo essere stati – come quei ragazzi e quelle ragazze, assetati di sesso e giovinezza, mai domi, solidali, feroci nel bisogno primitivo di addentare la vita, di toccare e toccarci, di leccare e leccarci, di tradire e di riconciliarci, di perderci negli altri, che non sono mai minacciosi, ma sono un nostro specchio, una nostra prosecuzione, oggetto e fine ultimo di una ricerca affettiva che non sazia mai. Mektoub, My Love: Canto Uno è un flusso trascinante, che sembra dare una sferzata febbrile a suggestioni rohmeriane (come se Pauline à la plage fosse stato frantumato e sessualizzato), che sa giocare anche con il cinema popolare e giovanilista, reinventandolo: tre ore immersive e calde come un abbraccio, che prende alle viscere e non molla più. Un cinema-caleidoscopio in cui è bello ed emozionante perdersi e ritrovarsi, incuranti del tempo che passa, e che ci lascia a bocca aperta a chiederne ancora e ancora, come succede per le cose più belle della vita.