Morte e rinascita di Diabolik

Un melodramma che sfiora il noir. Il Diabolik dei fratelli Manetti colpisce proprio per l’adesione al fumetto e per la serietà con cui l’antieroe italiano degli ultimi sessant’anni viene messo in scena e trasposto sullo schermo. Non c’è spazio per rivisitazioni, interpretazioni, punti di vista: Diabolik è qui ritratto con lo stesso algido cotè di mistero con cui era stato pensato dalle sorelle Giussani quasi sessant’anni fa, laconico, affascinante, spietato e capace di invenzioni sorprendenti per portare a compimento i suoi furti. Diabolik esce da un tombino come Eric von Stroehim e João César Monteiro, ma non si tratta di citazioni, piuttosto dell’attitudine cinefila raffinata e totalizzante dei due registi, riusciti in un’impresa in cui nessuno aveva potuto cimentarsi dai tempi di Mario Bava. Clerville è l’Italia degli anni Sessanta, glamour e corrotta, proiettata nel futuro, elegante, ricca, esibizionista e razionalista nella definizione di spazi ed edifici. Nella storia, che s’ispira al terzo albo della serie a fumetti, è evidente l’intento di condensare gli aspetti più importanti che hanno caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta. Scelta felice e necessaria a contestualizzare la descrizione a tutto tondo di personaggi complessi (non solo Diabolik, ma anche Eva Kant e lo stesso Ginko), con un passato ingombrante anche se tutto da scoprire e caratteri ormai scolpiti, che piacerebbero a Hitchcock per una certa subliminale inafferrabilità, suggerita dai silenzi e dal gioco continuo di sguardi.

 

 

L’inizio è una corsa senza fiato. La rapina in banca si è appena conclusa in una città avvolta dalla notte. Le sirene della polizia, lo stridio dei pneumatici, il rombo dei motori interrompono il silenzio. Il ladro Diabolik riesce a fuggire saltando da un trampolino e a nascondersi in una grotta invisibile dove nasconde macchine e maschere inquietanti. Il quartier generale del re del brivido è un lungo sotterraneo scavato sotto la città di Clerville, moderno e tecnologico, ma fatto di sassi, paratie, contrappesi e nessun effetto speciale. Un uomo con una tuta nera e un’auto velocissima, dalla fredda intelligenza, calcolatrice, metodica e seria, personaggio ipnotico che il film asseconda passo passo, trattenendo e sottraendo, fino a creare un’atmosfera vintage e rarefatta come i dialoghi tra i due futuri amanti. Un personaggio che muore e rinasce uguale a se stesso. In filigrana rispetto alle tavole disegnate. In sospensione rispetto ad uno scorrere riflessivo del tempo. Colori spenti, tagli di luce abbaglianti, stilizzazione prima di tutto. E personaggi femminili reali nella loro femminilità ma anche in una determinazione che non concede spazio al timore o al rimpianto. Figure quasi femministe nel non aderire agli stereotipi più elementari, che vivono radicate nel presente delle loro vite. L’ereditiera Eva Kant, certo, ma anche la moglie di Valter, alias Diabolik – per fare solo i due esempi più evidenti – l’una l’opposto dell’altra. Il bene e il male non c’entrano in questo universo tanto dettagliato. A contendersi la scena in una lotta senza sosta ci sono le ambizioni e la scommessa di una vita che alza la sua stessa posta. Senza ironia. Senza clamore. Senza ammiccamenti.