Napoleon di Ridley Scott: la parabola di un imperatore poco simpatico (quantomeno al regista)

Il nuovo lavoro cinematografico di Ridley Scott disegnerebbe una circolorità perfetta nella filmografia dell’autore britannico, se solo Napoleon rimanesse l’ultimo film della sua vita. Cosa che probabilmente (e, aggiungiamo, per fortuna) non sarà, considerato che l’inossidabile cineasta, classe 1937, già marcia verso ulteriori orizzonti. È tuttavia curioso come, a distanza di quasi mezzo secolo da I duellanti (capolavoro di ispirazione conradiana con cui esordì nel lungometraggio), Scott torni sulla figura del còrso, e sul suo ruolo nella storia moderna. Quando lo fece una prima volta, nel 1977, optò per una prospettiva laterale: nell’interminabile duello tra due ufficiali dell’esercito francese per futilissimi motivi, Napoleone era presenza imprescindibile anche se in apparenza distante, e in fondo la stigmatizzazione dell’ossessione tutta umana per una presunta supremazia morale, e per il potere che lascerebbe un segno nel  mondo, lo riguardava parecchio, in virtù di una connessione che risultava piuttosto evidente sul piano allegorico. Stavolta non c’è invece mediazione: al centro della narrazione campeggia Bonaparte in persona, con le sue riconosciute virtù militari, le sue ambiguità (e reticenze) pubbliche, le misconosciute  piccinierie (ma pure fragilità e inaspettate dolcezze) private.

 

 

Ebbene, sulle prime Scott si limita a una disamina antiretorica, che trattiene al massimo ogni respiro epico, asciugando la trattazione fino a renderla mero resoconto, per inquadrare la vertiginosa ascesa e la tombale caduta di un capitano d’artiglieria che scala posizioni all’epoca caotica del Terrore grazie all’acume militare, diventando in pochi anni imperatore di una rinnovata monarchia che si maschera da Repubblica, anche se non verrà mai meno nei francesi del tempo la sensazione di essere finalmente padroni del proprio destino e di seguire Napoleone per convinzione, non per costrizione. Quanto alle seconde, il regista sorvola sul passato (peraltro relativo, data l’età) che precede la Révolution e accenna soltanto al pragmatismo successivo, attuato con scientifica precisione. Dedica molto più spazio, per contro, al Napoleone intimo e familiare, focalizzandosi specialmente sul rapporto mai interrotto – nonostante il divorzio che scisse il legame civile, una volta appurata la sopraggiunta sterilità della donna – con la moglie Giuseppina di Beauharnais. Infatti, il film raggiunge il suo culmine emotivo proprio nella rappresentazione dello (squallido) scioglimento del vincolo, con Napoleone che lo vive come un passaggio da archiviare in fretta, certo che nulla cambierà nella sua relazione con la consorte. Ed è curioso come Scott, con tocco in questo caso decisamente felice, distingua nettamente la meccanicità di rapidi amplessi che paiono rispondere unicamente a necessità dinastiche, dall’atteggiamento amoroso (moderatamente) più caldo, e certo più convinto, con cui il condottiero si approccia alla consorte.

 

 

Ridley Scott è stato attaccato soprattutto sul piano della fedeltà storica, ma a quella egli non si è mai dimostrato particolarmente interessato nella sua filmografia, semmai più incline alla ricostruzione coerente con la propria idea di cinema spettacolare, e dalla messa in scena insieme suggestiva e potente, che non alla verosimiglianza. La verità è che se Napoleon non funziona, ciò avviene per altre ragioni. La prima risiede nel fatto che è un film freddo, avaro sul piano delle emozioni, senza nemmeno una confezione immaginificamente sontuosa (alla Barry Lyndon di Kubrick, per intenderci, che è poi la più che plausibile stella polare dell’autore di Blade Runner per questa impresa) a sublimarlo. La seconda, a corollario, dimora nella evidenza che il personaggio (la sua storia, la sua umanità, ancor più la sua leggenda) a Scott proprio non piace, come dimostra tutto il film, e in grado estremo il confronto con il duca di Wellington (non certo un simpaticone, che però viene quasi esaltato nella comparazione, anche grazie all’interpretazione ieratica di Rupert Everett) e la la scelta finale di convertire in numeri disfattisti anche le vittorie sonanti dell’imperatore. Ragionamento condivisibile se la la finalità è condannare la spietata inutilità di ogni guerra, meno se va letto come condanna ad hoc per Napoleone. Per certo, l’assenza di empatia del regista britannico verso il suo protagonista si trasmette al film, rendendolo sostanzialmente anonimo (soprattutto rispetto agli standard a cui ci aveva abituato nel secolo scorso), con la sola sequenza della battaglia di Waterloo (e un poco anche di quella, esisensteniana, del trionfo di Austerlitz) che si stampa davvero nella memoria, mentre pure Joaquin Phoenix (che recita per sottrazione) e Vanessa Kirby (poco in parte) appaiono sottotono negli abiti imperiali. Non è certo un tonfo e nemmeno un “brutto film” in assoluto, perché Scott ha esperienza e anticorpi per attutire l’impatto, ma gli inciampi da qualche anno crescono e le regie di alto rango (I duellanti, Alien, Blade Runner, Black Rain, forse Il gladiatore) appaiono lontane nel tempo, archiviate, irripetibili. Pure così, per inierzia,…transit gloria mundi.