Né commedia, né dramma, né tragedia nel nichilismo anarchico di Break-up di Marco Ferreri

Per molti versi il cinema di Marco Ferreri resta un pianeta semisconosciuto, forse ancora da esplorare nella sua interezza. Il regista milanese, scomparso nel 1997, ci ha lasciato una filmografia sempre difficile da catalogare, tra la parabola, l’invenzione surrealista e un anarchismo delle forme e delle espressioni, che davano sfogo alla sua geniale autorialità e alla nichilista finalità dei suoi film.  Break-up o L’uomo dei cinque palloni del 1965 è sicuramente uno dei film meno noti del regista. Film maltrattato dalla produzione (Carlo Ponti) e successivamente rimaneggiato con l’aggiunta di una sequenza a colori, destinato ad una distribuzione americana che non lo fece circolare e poi ridotto a poco più di mezzora e inserito in un film a episodi dal titolo Oggi, domani e dopodomani. La Cineteca di Bologna ne ha curato il restauro qualche anno fa, e adesso è visibile sulla piattaforma di Mymovies nella sezione del Cinema ritrovato – Fuori sala. Mario (Marcello Mastroianni) è un industriale milanese che produce caramelle. La sua mente è solitamente occupata a risolvere problemi legati alla produzione. Un pubblicitario gli offre la possibilità di acquistare dei palloncini gonfiabili per fare réclame al suo prodotto. Affascinato da questi gadget, Mario continuerà a chiedersi quanta aria è possibile immettere nei palloncini prima che questi scoppino. Questa domanda, alla quale non sa dare risposta, occuperà totalmente la sua mente e sarà la causa della frattura con la giovane fidanzata Giovanna (Catherine Spaak). Solo e tormentato dal dubbio, Mario sarà costretto ad un gesto estremo.

 

 

Un film così non avrebbe potuto trovare fortuna nella scuderia di Ponti, un film talmente sofisticato nella forma e negli assunti, decisamente avanti rispetto ad ogni comune sentire dell’epoca e ancora oggi da considerarsi moderno, sganciato com’è da ogni riferimento temporale se non quello della sua ambientazione. Mario è cinico, egoista, disinteressato al mondo e alle persone che lo circondano, sprezzante e capriccioso. Un personaggio figlio dei suoi tempi, di quegli anni brevi del benessere economico in cui si sviluppò in Italia, più che in altre epoche, l’idea dell’uomo come produttore di ricchezza. Contro questo pensiero dominante l’anarchico Marco Ferreri si trovava già sull’opposta sponda, quella della critica a questo sistema di stampo capitalistico e il suo apologo si conclude con il suo protagonista avvolto e risucchiato dentro le spire di quegli effetti che hanno prodotto un distanziamento insanabile da ogni vero benessere. Discorsi simili in quegli anni venivano condotti sotto altri registri e con altre inclinazioni del pensiero anche da altri autori del nostro cinema, esempi mirabili sono il dimesso Un certo giorno di Ermanno Olmi del 1968 e La vita agra di Carlo Lizzani, con Ugo Tognazzi, tratto dal fondamentale romanzo di Luciano Bianciardi. È solo in quest’ottica dissacrante che il cinema nelle mani di Ferreri diviene davvero incendiario e sovversivo, cinema che non è fatto di realismo se non negli ambienti: la casa di Mario ricca di cose preziose e d’arte contemporanea da Morandi a Capogrossi, Peck la famosa e lussuosa salumeria milanese; ma non è neppure fatto di surrealismo buñeliano, anche se la sequenza nella discoteca alla moda degli anni ’60 sembra spingere il film su un versante tra l’onirico e il fantastico, ma in un’ottica quasi felliniana, laddove invece il finale sembra fare rivivere quell’umorismo macabro e cinico del regista spagnolo. È così che Break–up diventa, come una gran parte della produzione ferreriana del tutto inclassificabile, estraneo ad ogni categoria, vera isola di quel variegato arcipelago che è la filmografia dell’Autore.

 

 

Marco Ferreri con il suo cinema è stato un provocatore apocalittico, intervenuto direttamente e, diremmo, chirurgicamente sulle parti più malate della società dei consumi per velocizzarne la conclusione. Break-up partecipa a questo rito e il suo personaggio diventa quella parte del tutto attraverso cui leggere i tratti deteriorati di quegli assetti volti al consumo delle cose. Una società che aggiungeva all’incomunicabilità di Antonioni anche il degrado dei sentimenti leggibili in questo film. Un corpo sociale, quindi, che Ferreri vedeva andare dritta verso una inevitabile implosione. Né la sua poetica sarebbe mutata nel breve futuro, ma anche in quello più vicino alla conclusione della sua carriera (I love you, con i suoi possibili difetti, diventa un film epitome dei suoi precedenti). I suoi film più conosciuti hanno, infatti, rappresentato un attacco feroce e implacabile contro i principi dentro i quali proliferava la società industriale dell’Italia capitalistica. Break-up non si sottrae a questa finalità e anzi sopravanza i tempi, mostrando il fallimento esistenziale dell’uomo produttivo, incapace, invece, di produrre ragionamento, smarrito davanti ai temi che non siano quelli di un’esistenza votata al lavoro e alla moltiplicazione dei beni di consumo, anche di quelli del tutto trascurabili come le caramelle della sua fabbrichetta. È da queste caratteristiche, accentuate dalla scrittura di Rafael Azcona – che incredibilmente nei titoli di testa viene chiamato “Ascona” – divenuto fidato collaboratore del regista dopo l’esperienza spagnola, che trova origine quell’accentuato senso del grottesco che pervade sensibilmente il film astraendolo da ogni naturalismo piatto e consueto. Ferreri riserva per sé una comparsata, due inquadrature di un personaggio nella salumeria natalizia che mangia avidamente, anticipando già di molti anni il tema de La grande abbuffata e dell’immagine del cibo come simbolico atto del divorare e come forma precipua della voracità esibita dalla società consumistica. Ferreri, e questo film da considerarsi un incipit della sua poetica volta a contrastare ogni corrente pensiero dominante in fatto di assetto sociale, lo testimonia con nettezza, ha condotto questa sua battaglia intellettuale con opere-pamphlet, elaborate in piena indipendenza, al di fuori di ogni ideologia, dimostrando la sua autarchia di analisi che pure trovava espressione in decenni durante i quali la forte ideologizzazione della critica sociale aveva terreno fertile sul quale attecchire. È forse per queste ragioni che Break-up, pur con la sua forma inusuale, né commedia a tutto tondo, né dramma, né tragedia, diventa solo amara irrisione acida e sguardo trasversale sul fallimento di un’intera generazione, incapace di costruire relazioni umane, smarrita davanti a ciò che appare incomprensibile. Finale geniale, cinicamente geniale quello del film, in cui la scrittura di Azcona recupera ogni forza del grottesco buñueliano per restituire allo spettatore lo specchio di una collettività distratta e imprigionata nel proprio avere, piuttosto che nell’essere. Un finale in cui compare Ugo Tognazzi, che tanta parte avrà nel cinema di Ferreri e non solo in quello, i cui personaggi – come questo di Break-up – avrebbero dato volto ad una diffusa mediocrità insolente e dannosa.