Nel paradiso perduto: a Locarno74 Mad God di Phil Tippett

La notte nera di pece che cade sulla Torre di Babele nell’incipit di Mad God spinge il film in un universo bruegeliano fatto di figure deformi ammassate nell’ampia visione di uno spazio scenografico delirante, mentre il testo del Levitico detta la sua legge. Phil Tippett gioca all’apocalisse intingendola nella pulsione vischiosa dell’autodistruzione dell’umanità e ci offre finalmente questo suo allucinante e a lungo atteso film animato, che squaderna le pagine più oscure dell’immaginario distopico inciso sulla pelle di questo terzo millennio. In prima mondiale a Locarno 74, dove Tippett ha ricevuto il Vision Award Ticinomoda, Mad God è un oggetto imploso nella sua pulsione visionaria, un trip lisergico monocromatico, avvinghiato alla notte eterna di un tempo postapocalittico, che scorre tra macerie stratificate e corpi mutati e mutanti in decomposizione.

 

 

Procedendo sulla linea verticale impressa dalla Torre di Babele iniziale, il film inverte il suo movimento nella profondità di un mondo distrutto, governato da una ratio fatta di morte, sopraffazione e sofferenza. Seguiamo i passi di un uomo che, protetto da una maschera, si aggira in questo infermo con una valigia in mano e una mappa che si consuma sotto i suoi occhi. Ha una missione, la stessa che avevano quelli inviati prima di lui e che avranno quelli che seguiranno: l’eterno ritorno di una funzione vana, inutile come tutto quell’universo di fatica inumana e atroce sofferenza messo in piedi da un dio pazzo. Tutto attorno è un incubo infernale popolato di creature striscianti, fantocci di paglia dalle sembianze umane, torture, devastazione dei corpi, innesti meccanici, parti mostruosi, urla e gemiti, indifferenza e richieste di misericordia… Phil Tippet costruisce un paradiso perduto miltoniano che visivamente distilla la visionarietà organica di Giger, la proliferazione meccanica cyberpunk, la fisiognomica manierista dell’Arcimboldo, il decadentismo organico e meccanico dei Quay Brothers e probabilmente molto altro ancora.

 

 

Questo straordinario artista degli effetti speciali e della stop-motion (e della sua integrazione digitale, la go motion) ha costruito con Mad God un film animato che come pochi offre il senso della materia organica, applicandolo tanto all’ossessione splatter della performance fisica del corpo come barkeriano “libro di sangue”, quanto alla deformazione martirologica del tormento come via della salvezza. In realtà, va detto che Mad God sembra sostenuto da un’ironia implicita che sembra il prodotto di una pietas esausta, sfiancata dal troppo dolore osservato. Ma quel che resta è un senso di obnubilamento della ragione, una saturazione dello sguardo che sono il frutto preciso della performance messa in campo con esorbitante perizia da Tippett, che infatti non esita a chiosare: «La forma finale di Mad God non è il film in sé, ma il ricordo che resta dopo averlo visto»…