Nella ragnatela dell’umanità: Vermin, di Sébastien Vaniček, alla Sic di Venezia80

Come il condominio di REC, o il garage sotterraneo dove esplode la furia finale de La Horde, il cinema di genere contemporaneo continua a stare in trincea, per affrontare le sue invasioni mostruose, quelle che raccontano il collasso delle barriere e svelano tanto i malesseri sopiti all’interno, quanto le tensioni sociali che avvolgono la comunità tutta. Nel caso specifico non ci sono gli zombie ma i ragni, di una specie particolarmente velenosa e rapidissima a riprodursi, introdotta ingenuamente in un palazzo delle banlieue da un ragazzo che colleziona insetti e specie rare, mentre cerca di sbarcare il lunario con il contrabbando: tutto pur di non lasciare l’appartamento in cui viveva con sua madre e che ora divide con la sorella che vorrebbe invece andarsene appena possibile. Quando l’invasione ha inizio, gli equilibri possono così franare velocemente, lungo una dinamica che, mentre osserva le interazioni fra i due e con i loro amici più stretti, allarga anche la prospettiva un po’ a tutto il palazzo: c’è chi non si fida e non si lascia aiutare, chi si barrica in casa vedendolo come l’ultimo rifugio possibile dal male esterno, condannandosi in questo modo al peggio, chi sognava di andarsene ma è ormai troppo tardi, chi semplicemente è un elemento destabilizzante che non farà altro che gettare benzina sul fuoco. E ci sono naturalmente le autorità che operano per il contenimento, perché in fondo un palazzo della banlieue è un obiettivo sacrificabile.

 

 

Il gioco delle metafore è evidente e Sébastien Vaniček lo ossequia in modo opportuno, attraverso un ritmo che gioca con le attese e i continui salti sulla sedia, dove i piccoli/grandi traumi sepolti trovano così il tempo di elaborare le proprie motivazioni più recondite. Nel frattempo va in scena un efficacissimo spettacolo della tensione, che il regista esordiente – ma con un meritorio trascorso nei cortometraggi – manovra con gran polso e buona inventiva, trasformando il palazzo in un labirinto visionario degno dei corridoi dell’astronave Nostromo di Alien, giocando con le prospettive e, ovviamente con le dimensioni. Non solo quelle degli ambienti, che di volta in volta si reinventano come piccoli o grandi, ma anche (e naturalmente) con quelli dei ragni, che si “adattano” alle richieste dell’intrattenimento per dare forma a bestie sempre più aggressive e enormi. Il lavoro che Vaniček compie sul punto di vista è comunque non gratuito, ma propedeutico a unire le due anime del racconto: i ragni sono spesso elementi che compaiono ai margini delle inquadrature in Scope, si confondono con le architetture e le loro tele disegnano geometrie che riscrivono gli equilibri degli ambienti. Solo la luce sembra inibirne l’aggressività, e quindi la dialettica fra le zone più o meno in ombra, aumenta l’efficacia del confronto. Spesso vediamo solo alcune zampe sfocate, in un gioco che alla potenziale ripetitività del meccanismo (visto un ragno, in fondo, visti tutti) si dimostra sempre in grado di stimolare l’occhio dello spettatore. Perché in fondo anche questa realtà è a suo modo una ragnatela di apparenze da superare, per arrivare al cuore di un’umanità che deve imparare a unirsi per non finire avvolta dal bozzolo delle proprie debolezze. Presentato alla 39ma Settimana Internazionale della Critica della Mostra di Venezia 2023.