New York, 2007. Una multinazionale del cibo – la Mirando Corporation – vuole far dimenticare un passato immorale chiacchierato sfruttando il sorriso (con apparecchio) della sua biondissima nuova amministratrice: per combattere la fame si dà vita a un misterioso esperimento genetico. In ventisei paesi verranno allevati, per dieci anni, dei supermaiali e a chi sarà riuscito a crescerli meglio verrà consegnata fama e gloria imperitura. Dietro ai proclami di riduzione dell’impatto ambientale e alle promesse di un’attenzione al benessere degli animali, si nascondono però gli scontati piani di ricchezza di un’industria guidata dall’avidità e da una sorta di amoralità esistenziale. Dopo Snowpiercer, Bong Joon-ho torna a raccontare una distopia – lì una rigida impostazione classista rispecchiata nei vagoni immutabili di un treno in perenne movimento, qui lo sfruttamento intensivo degli allevamenti animali che maschera la crudeltà della sopraffazione seriale con i colori della pubblicità – usando stavolta gli strumenti della fiaba e del grottesco.
Dopo il rutilante prologo, in cui Tilda Swinton arringa il pubblico alle meraviglie del nuovo animale, l’azione si sposta in un’idilliaca campagna coreana, dove la piccola Mija ha accudito Okja, un gigantesco cucciolone che più che un suino ricorda una creatura di Hayao Miyazaki (ma il muso docile fa pensare anche al drago volante di La storia infinita). L’ambientazione coreana regala forse i momenti più riusciti del film: la macchina da presa di Bong sembra dipingere con partecipazione la vita naturale di quelle campagne e il delicato rapporto tra bambina e animale si sostiene su un’empatia sensibile e messa in scena con cristallina dolcezza. Una volta tornati a New York, però, torna a prevalere un tono farsesco che non sempre dà i frutti sperati. I piani maligni della multinazionale vengono ostacolati da un variopinto gruppo di animalisti, una sorta di banda schizofrenica capitanata da Paul Dano. I toni sono costantemente esasperati: ma se la regia di Bong trova, anche negli eccessi, una sua quadratura e un’inventiva non convenzionale, la recitazione sopra le righe di Swinton e di Jake Gyllenhaal (completamente fuori controllo) inciampa e distrae. Il risultato è una favola sbilenca, più simile a un’avventura a fumetti – il mondo dei manga e dell’animazione sembrano essere il riferimento primario, anche nella composizione delle inquadrature – che alla fantascienza eticamente consapevole a cui Bong vuole tendere. La struttura apparente è quella del film per ragazzi, alto e basso si mescolano con frenesia non sempre riuscita e se alcuni momenti di inaspettata e improvvisa crudeltà illuminano il film di una salutare cupezza, l’alternanza di toni non sempre garantisce al senso più profondo del film una sufficiente solidità. L’idea di raccontare con colorata passione e farsesca ironia il rapporto ormai saltato tra mondo umano e mondo animale – e tutte le implicazioni legate a sfruttamento e alimentazione che ne conseguono – poteva dimostrarsi vitale e originale. Purtroppo in Okja prevale spesso un gusto caricaturale per lo sberleffo che in più di un’occasione è fine a se stesso. In questi giorni a Cannes la battaglia tra Festival e Netflix ha tenuto banco. Oggi, con Okja, è finita in parità: è un film incostante, capace di suscitare un’istintiva simpatia, ma che forse avrebbe trovato la sua collocazione più logica fuori dal concorso principale.