Oltre la verità: The Fabelmans di Steven Spielberg

Tutto accade per una ragione, ripete Mitzi ai figli, quando si ferma in lacrime davanti al tornado verso cui s’è lanciata in auto. È solo il primo dei gesti fuori norma, illogici, che punteggiano The Fabelmans, squarci di irrazionalità narrativa che destabilizzano l’ordine (crono)logico della narrazione autobiografica cui Steven Spielberg s’è finalmente abbandonato con questo suo fondamentale film. Ma è proprio in queste deviazioni di senso, che apparentemente cozzano con la scansione degli eventi e con la sequenza naturale delle azioni, che il film trova le sue ragioni, inarcando in una finzione astratta il dramma reale in atto. Mitzi che scappa verso il tornado, Sammy che sul set del suo film di guerra astrae il suo dolore nella linea di fuga del comandante, la trasformazione del gretto Logan in una smagliante icona studentesca nel film scolastico: snodi del rapporto tra le dimensioni della vita e la loro rappresentazione, in cui lo spettacolo bigger than life è il parametro di riferimento per prendere le misure della realtà e del suo dolore. L’imprinting del resto lo impone: De Mille, The Greatest Show on Earth, il più grande spettacolo del mondo che si offre nell’incipit allo sguardo cinematograficamente vergine del piccolo Sammy Fabelmans, è la sequenza di una fuga in avanti verso le dimensioni che eccedono la vita, di cui Spielberg sarà portatore assoluto in gran parte del suo cinema (Duel, Lo squalo, Incontri Ravvicinati, Jurassic Park…).

 

 

La scena demilliana, del resto, è quella che Mitzi inconsciamente riproduce quando si dirige in auto verso il tornado, in uno slancio per salvare e perdere se stessa e il suo amore… “Tutto accade per una ragione” è il mantra che stabilizza la relazione con le dimensioni del mondo e dà un senso al rapporto tra gli eventi e la realtà. Ovvero tra le azioni e la scena in termini di set, di cinema: poter controllare ciò che accade, riprodurlo per metterlo alla portata della ragione, dello sguardo che analizza, ordina, ricostruisce come davanti allo schermo della moviola. L’ossessione del piccolo Sammy per la riproduzione in scala della catastrofe ferroviaria messa in scena da De Mille è il tentativo di ricondurre in termini di realtà il grande spettacolo irreale cui ha assistito. Di film sulla magia del filmare ce n’è tanti: film che s’inarcano sul rapporto onirico tra vita e set, sulla confusione sentimentale che determina la flagranza del filmare. Ma la grandezza assoluta di The Fabelmans, la sua unicità, sta nel suo essere piuttosto un film sul rapporto tra il cinema e la vita, o se preferite la realtà. Che è un rapporto doloroso, come Spielberg svela con una sincerità quasi spiazzante: l’arte è pericolosa, fa male, separa i corpi e spezza i cuori, dice lo zio Boris davanti alla moviola sulla quale Sammy sta per scoprire la verità. E sta per decidere di nasconderla, ricostruendo ad arte la finzione della felicità familiare e rimanendo solo, come il comandante destinato a vagare, “Escape to Nowhere”, tra i morti che ha lasciato sul campo di battaglia… O come lo zio Boris, zingaro e reietto tra i suoi cari…

 

 

Se tutto il cinema spielberghiano è costruito come una macchina per definire il rapporto tra la vita e la morte, anzi proprio come uno strumento atto a vincere la morte, The Fabelmans è il teorema che ne spiega la funzione in chiave autobiografica e nel farlo ci fa rivedere con occhi nuovi ogni sua opera, ogni ragione del suo filmare, ogni regione del suo immaginario. La cosa sorprendente è che non c’è traccia di incanto in questo film, non siamo di fronte a un’opera che magnifica la creazione cinematografica in chiave nostalgica o seguendo una tensione illusiva, affabulatoria, onirica. The Fabelmans è un film concreto, quasi materico nel suo mostrare gli ingranaggi dietro la tenda di Oz, e anche laddove incorre nella memoria autobiografica (l’incontro con John Ford, avvenuto veramente) lascia da parte ogni filtro per tenere in campo solo la materia del filmare. E l’immenso David Lynch – a proposito di Oz… – si unisce alla schiera dei registi (Truffaut, Attenborough…) che nel cinema spielberghiano fanno da traghettatori tra la vita e l’altrove… Questa è un’opera in cui la magia del filmare è solo l’imprinting offerto dall’arte a un ragazzo destinato a diventare uomo coi segni lasciati sul suo corpo, col dolore fisico, reale, di uno schiaffo su una spalla, di una guancia strizzata in un pizzico… The Fabelmans non è un film sul sogno del cinema, piuttosto è un film sul cinema come segno, un’opera che si nutre di un infinito amore per la potenza filmica del cinema, che transita dalla vita al set, ma trova la sua vera ragione nel posizionamento che si assume tra quei due estremi: la realtà e la finzione. Il fine del cinema, insomma, è un po’ come la fine di questo film, sospesa tra l’ending chapliniano che vede Sammy allontanarsi solo tra gli studios hollywoodiani, verso un orizzonte ovviamente corretto sulla linea fordiana…