Con i paradossi temporali James Cameron ci lavora dai tempi di Terminator: non appare perciò troppo forzata la sfasatura che vuole un titolo di punta del manga cyberpunk – tanto amato dal regista canadese che qui scrive e produce – arrivare alla sua versione cinematografica come epigono della stessa corrente. Un titolo quasi “fuori tempo” rispetto alla temperie che lo stesso Cameron aveva contribuito a rifondare. Perché proprio gli slittamenti di senso sono ciò che rendono Alita: Angelo della battaglia un progetto così esaltante: retrò nelle sue direttrici narrative e nel mix esistenziale di tecnologia e umanità, eppure ancora avanguardistico per l’uso emozionale della performance capture. Nel primo caso siamo in pieno territorio Terminator, appunto, per il senso di fisicità tattile del corpo in metallo, che definisce il tono stesso del film, nelle variazioni cromatiche e nell’ambiente sonoro che la vicenda crea. Nel secondo caso, invece, siamo direttamente dalle parti di Avatar, per la seconda volta in un anno dopo i fasti di Ready Player One. Le sagome attoriali si scompongono nel neo-mondo di pixel e diventano un corpo altro, mantenendo però il piacere della scoperta per il nuovo altrodove che si va ad attraversare. Alita insomma come Jake Sully o Wade/Parzival è un’esploratrice di un universo da plasmare mentre lo si attraversa, dal mondo fluttuante di sopra, alle gallerie di sotto, alle piste da competizione che ne descrivono in un certo senso l’ampiezza. Perciò al suo corpo metallico si uniscono gli occhi esageratamente ampi, che ne descrivono l’alterità, ma allo stesso tempo il senso della meraviglia, la capacità di guardare con sguardo differente.
In questo senso, Alita è davvero un ipertesto: lineare eppure a livelli, nei suoi rimandi interni e esterni alla vicenda raccontata. Quindi una perfetta contraddizione, la stessa che permette di appassionarsi all’impianto visivo di una vicenda che non risparmia in invenzioni scenografiche – complice anche un 3D immersivo come non si vedeva da un po’ – ma che punta poi ad altro. All’interazione dei caratteri, a una certa fattura da teen movie futuribile fatto di sentimenti e legami profondi tra Alita e Hugo. Alla voglia di riconoscersi e riscoprire il mondo, liberi mentre si è consapevoli di dover anche far fronte alle ferite del passato. E questo tentativo di rileggere una mitologia giapponese in una chiave prettamente Occidentale, riesce dove aveva fallito invece il Bumblebee di Travis Knight: nel ricreare una mitologia moderna, ma dal sapore antico, senza che la sua natura derivativa sia schiacciata dal confronto con i modelli. A fare da collante tra i vari estremi c’è la regia di Robert Rodriguez, non casuale né di servizio, che alleggerisce il corpo metallico di Alita, lo aiuta a descrivere traiettorie aeree che ricordano le improbabili sparatorie del Mariachi, i mondi digitali degli Spy Kids e la scomposizione del reale di Sin City. È in fondo l’estrema contraddizione di un regista analogico nei gusti, ma digitale nelle esecuzioni e capace di plasmare la materia filmica con il gusto del moderno burattinaio. Un autore che traspone i fumetti esaltandone il gusto cinematografico e fa film con aura da comic-book e che qui si trova nella sfida di ibridazione più vertiginosa della sua carriera: rileggere un manga che è stato anche un film animato, alla luce delle direttive impartite da un regista-produttore (Cameron) fra i più rappresentativi nello sviluppo espressivo della computer grafica. Serviva una certa incoscienza, ma anche un certo entusiasmo, e sappiamo che al regista texano entrambe le doti certamente non mancano.