Parlare e (non) vedere, note su alcuni film di Manoel de Oliveira

oliveira-tt-width-604-height-403-bgcolor-000000Viaggio al principio dell’uomo. Il cinema di Manoel de Oliveira ha intrapreso un’avventura alla riscoperta dei valori che potremmo dire “rinascimentali”. I suoi film, alcuni più di altri, ovviamente, lavorano su fronti diversi, attorno ad un nodo che resta insoluto e che intreccia l’“utopia”, di cui si sente il respiro, la tensione che emana da ogni frammento, un tempo che attende, mesto e interrogativo, e l’inspiegabile mistero di uno sguardo che si sofferma sugli oggetti inanimati, inventando, per loro una vita immaginaria. E c’è la parola, ci sono i discorsi attorno al dire, la sorpresa meditata di una realtà che non esiste se non nella sua ricostruzione teatrale, che il film reinventa e anima e ferma nell’immobile mobilità del fotogramma.

viagemaoprincipio_03Lo stratagemma del cinema è il vero segreto, la messa in scena della finzione che perde di vista il suo mettersi in scena. Il segreto, si diceva, sta dunque nell’assumere la contraddizione come forma per “vestire”, dissimulare, mascherare la realtà, il trasgredire le regole per stare a vedere come appare il mondo capovolto. Il questo gioco dell’artificio, parola e immagine si contendono lo schermo, si insinuano l’una al posto dell’altra nel segno della sperimentazione. Costante ormai imprescindibile, firma beffarda che immediatamente porta ogni film ad andare oltre se stesso (slittando su se stesso), come accade magnificamente in Viaggio all’inizio del mondo, sempre un po’ oltre lo sconfinamento impossibile tra l’ascoltare il silenzio o vedere l’infilmabile. Film doppio perché due volte autobiografico (chissà poterlo proiettare contemporaneamente, sullo stesso schermo, in sovrapposizione, dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio…), con la storia del regista Manoel, compagno di viaggio del suo attore francese, in un lungo percorso in auto alla ricerca delle origini di quest’ultimo (il villaggio natale del padre). Al loro arrivo la veccor18_Xhia zia non lo vuole/può riconoscere perché non ne capisce l’idioma, la comunicazione tra loro è impossibile e l’uomo non sa far altro che chiudersi nel silenzio. Due lingue ma anche due sguardi in cortocircuito, nella stessa inquadratura, tra memoria e scoperta di essa, il passato e il presente raccontati, evocati, trasformati dalle parole, e poi lo sguardo più in disparte, ma in primo piano, dell’autista, lo stesso Oliveira che traghetta i suoi “ospiti” in un detour dello smarrimento, proteso in avanti, verso la strada da percorrere, mentre la sola strada che ci è dato vedere è quella già percorsa e riflessa dallo specchietto retrovisore.

 

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Segni di una simbologia troppo facile o troppo difficile da decifrare, che si ritrovano, uguali e contrari, aperti e argomentati, nella conversazione attorno ad un tavolo in Um filme falado, dove, però, non esiste contrasto (in apparenza) ma armonia tra inglese, francese, greco e italiano, almeno fino a quando non irrompe, guarda caso il portoghese a gettare scompiglio in quella che fino ad allora era stata una perfetta, impensabile Babele. Il guardare indietro dell’autista Oliveira combacia, qui, con il ripetersi delle partenze di una nave che si muove in avanti nello spazio ma indietro nel tempo.  Più si prosegue e più ci si rende conto di non vedere nulla. E così si ritorna all’immagine iniziale, alla partenza dal porto di Lisbona, quando la nebbia improvvisa e imprevista, impediva di vedere, riquadrava le immagini mobili che si offrono alla vista dei navigatori, privilegiando l’immaginazione. Vera e propria dichiarazione d’intenti, dove si lascia alla parola il compito di “fare” il controcampo, nei ripetitivi piani in cui madre e figlia, affacciate dal ponte dell’imbarcazione, osservano la ripartenza.

 

piccolIl disorientamento è, invece, la tensione che si costruisce fin dal principio in Ritorno a casa (e destinato, in realtà, a disorientare noi spettatori), intessendo una trama di segni che appaiono misteriosi, come enigmi che si vorrebbe sciogliere e che, invece, hanno significato nella loro irrisolutezza. Se, come dice Oliveira, il cinema è “sguardo che un po’ guarda e un po’ smette di guardare”, in Ritorno a casa sembra aver cercato di colmare quelle intermittenze, contravvenendo alle regola del montaggio e della contiguità, soffermandosi ad osservare spazi e oggetti che, tradizionalmente si lasciano “fuori”. La macchina da presa non è più solo vincolata ai corpi e al loro movimento, ma deve indugiare sul vuoto apparente che essi si lasciano dietro, non visto. Da qui lo smarrimento dovuto ai falsi ritmi e ai falsi tempi che continuamente ci ingannano. Film sui luoghi lasciati, che restano solitamente sguarniti di una presenza e di uno sguardo. Il manichino dietro le quinte del teatro, il tavolo vuoto di un caffé parigino, la vetrina di un negozio che nessuno sta più osservando. Tutti set abbandonati, che portano alle estreme conseguenze l’insistenza sul fuori campo, ma anche la sfida di un regista che affida a pochi e insoliti oggetti il compito di farsi metafora di un evento di per sé irraccontabile. Il corpo e la voce, poi, sottolineano la differenza tra cinema e teatro. La incarna Piccoli, che, nel non riuscire a farsi corpo filmico (ma ancora di più voce essendo soprattutto incapace di assumere un determinato ritmo per la sua recitazione) abbandona il set e il posto deputato della finzione, per portarsi “in giro” il suo personaggio, per spingerlo lungo le strade, sui marciapiedi, atje-rentre-c3a0-la-maisontraverso la gente, fin dentro la propria casa (dove si invertono i ruoli, tra chi era stato, fino ad ora, osservatore e chi diventa, per la prima volta inconsapevolmente, oggetto dell’osservazione). La parola assume, un valore anomalo, è come straniata, sostituita all’immagine al punto che in tutta la prima parte sono ammesse, in campo solo le battute della finzione teatrale, come voler riportare l’equilibrio in un cinema tanto ingannevole che lascia, di nuovo, smarriti.

 

convento_0b Il riferimento più estremo è O convento dove, infatti, la parola è proibita. “Se entrate in questo convento dovrete essere ciechi, sordi e muti” è il monito che accoglie i due visitatori (John Malkovich e Catherine Deneuve) davanti ai cancelli del monastero. Non sarà, tuttavia, necessario compiere, consapevolmente alcuno sforzo, perché il luogo si prenderà cura di trasformare le loro parole, adattandole quasi paradossalmente, all’anomalia della sua stessa vertigine, saturo di tutti gli elementi che da sempre si trovano sparsi nel cinema di Oliveira. Una sorta di trascodifica che ha l’effetto del cortocircuito, nel segno del mistero e della dispersione. Le cose cambiano un poco se si considera l’opera forse più esplicita nell’indagine del rapporto tra il parlare e il vedere.  In Parole e utopia la parola sembra aver conquistato una nuova forza: si nutre di una consistenza quasi fisica e diventa immagine da vedere, corpo da toccare, flusso da ascoltare nella sua mescolanza di suoni e di segni. Come graffiti preistorici, i discorsi pronunciati quasi ininterrottamente da padre Antonio Vieira, si susseguono disegnando i contorni di un’idea che assume la concretezza dell’oggetto, ma anche l’agilità dell’utopia/immagine. Si procede per similitudini, suggerimenti e confronti, per un periodare complesso e semplice al tempo stesso, impetuoso e fluido come lo scorrere “a fior di mare” della macchina da presa, solcando l’Oceano in traiettorie disordinate tra partenze e ritorni, nello spaesamento del tempo che allinea passato e presente. In questa continuità, nella deriva alla quale non possiamo sottrarci, la parola perde anche il suo valore assoluto perché, oltre a sopraffare cose e persone, invade ogni angolo del quadro, si distende come un tappeto e ne consuma i contorni, risuona nella profondità degli spazi, si insinua, nella suimgresa forma scritta, ad infrangere l’immagine, dentro, quindi l’utopia, fino al paradosso e quindi alla cecictà. Perché per de Oliveira l’immagine, qui e altrove, nella sua monumentale opera, non va vista come mera riproduzione, ma in quanto stadio originario della parola. E nei suoi film lo è a tal punto da aderire perfettamente all’interminabile scorrere della voce dei suoi personaggi. Filmare la parola, allora, significa filmare lo scorrere inquieto del tempo e la relazione che esso intercorre con il cinema.