Passeggeri della notte di Mikhaël Hers, elogio dei magnifici sconosciuti

Una volta è un caso.

Due volte, una coincidenza.

Tre volte, un destino.

da Le notti della luna piena di Éric Rohmer

 

 

 

10 maggio 1981, una data storica per la Francia: François Mitterand, socialista, viene eletto presidente della Repubblica. È in questa notte di festa che Michaël Hers fa cominciare Passeggeri della notte con l’immagine di una ragazza (Noée Abita) davanti alla piantina del metrò di Parigi che si illumina a seconda delle linee. Poi in primo piano c’è il volto della giovane, in sovrimpressione, con la mappa quasi a identificarla fin da subito con una Parigi sotterranea, notturna. È lei la prima passeggera della notte che incontriamo. Nel frattempo una famiglia in auto torna a casa, mentre alla radio risuona la voce di Vanda Dorval (Emmanuelle Béart) con il suo programma che tiene compagnia e dà spazio alle voci degli insonni.

Con un salto in avanti di tre anni ci si focalizza sulla famiglia Davies intravista all’inizio e composta dalla madre Élisabeth (Charlotte Gainsbourg) e dai due figli: Judith (Megan Northam), in procinto di fare la maturità, sicura di sé e determinata, e il diciassettenne Matthias (Quito Rayon Richter), liceale con poca voglia di studiare ma con velleità da poeta. La separazione dal marito è definitiva, lui – che non vediamo mai – li ha lasciati per andare a vivere con una compagna più giovane. Élisabeth confida al padre (Didier Sandre) che per la prima volta nella sua vita deve cercare un lavoro. E lo trova proprio nel programma radiofonico che ascolta tutte le notti dove diventa centralinista con il compito importantissimo di «sentire la verità» nello scegliere le telefonate da passare in diretta. Ed è qui che si presenta anche la ragazza del metrò, che si fa chiamare Talulah, novella “senza tetto né legge” che ha lasciato la scuola, vive dove capita e che Élisabeth decide di accogliere per qualche tempo nella stanza sopra il loro appartamento.

 

 

Destini che si incrociano, come le linee del metrò, strade che si percorrono insieme per qualche tempo nell’ottica dell’ascolto (la radio riveste un ruolo fondamentale), dell’accoglienza e senza dare giudizi, momenti difficili da lasciarsi alle spalle (la separazione, ma anche la malattia con cui Élisabeth ha dovuto fare i conti) e molto cinema (spezzoni di Rohmer, Rivette, ma anche di Le Navire Night di Marguerite Duras e si citano Birdy – Le ali della libertà di Alan Parker e Indiana Jones) perché in sala, come dice Talulah, «on s’oublie», ci si dimentica di sé stessi, della propria misera esistenza. E proprio lei che «sembra un uccellino» appare come una sorta di reincarnazione del personaggio interpretato da Pascale Ogier in Le notti della luna piena (1984) di Éric Rohmer: stessi capelli arruffati, stessa indipendenza che può ferire… Un destino segnato il suo (tre sono, non a caso, gli incontri con la famiglia Davies), che cerca di arginare nel momento in cui Matthias le dichiara apertamente il suo amore. L’omaggio alla sfortunata Pascale (morta la sera prima di compiere 26 anni), nume tutelare di Passeggeri della notte, continua con Le pont du Nord (1981) di Jacques Rivette (in cui Pascale recita al fianco della madre Bulle).

 

 

Senza calcare troppo la mano Hers ci fa tornare negli anni 80 grazie a locandine di film, 33 giri, dolcevita, stivali, maglioni a rombi, Bmx e giocando con i formati cinematografici (super 8, 4:3) proponendoci una Parigi inedita, non da cartolina (le scene sono girate principalmente nel 15e Arrondissement). Vite che proseguono tra smarrimenti, sparizioni, nuovi incontri, possibili amori, compleanni, prime volte (amorose, politiche…). Il tempo inesorabilmente passa (si arriva al 1988). Matthias ha lasciato la scuola, ma non rinuncia al sogno di scrivere, Judith è andata a vivere fuori casa, impegnandosi in politica, Élisabeth continua con la radio affiancandole un lavoro part-time in biblioteca. Nuovi inizi sono in agguato, come l’imminente trasloco dalla casa-rifugio della famiglia che l’ex marito ha deciso di vendere. Una fase sembra chiudersi, con la consapevolezza che – come recita l’estratto da Les petites terres di Michèle Desbordes – non ci si conosce mai veramente, rimarremo sempre dei «magnifici sconosciuti» ma «ci sarà ciò che siamo stati per gli altri, delle briciole, dei frammenti di noi che talvolta hanno creduto di intravedere».