Piegare la vita: alla Berlinale73 Le proprietà dei metalli di Antonio Bigini

Non è un viaggio alla fine dell’innocenza, Le proprietà dei metalli, il film d’esordio di Antonio Bigini presentato nella competizione Generation alla Berlinale 73. Non lo è perché lavora su un protagonista che con l’innocenza ha poco a che fare: Pietro è un ragazzino della profonda provincia dell’Italia settentrionale della metà degli anni Settanta. Anni che da qualche parte sono di piombo, ma per lui sono al massimo di metallo. In paese, infatti, si dice che lui abbia il potere di piegare gli oggetti metallici, un po’ come Uri Geller, quel ragazzo israeliano che all’epoca spopolava sui teleschermi di mezza Europa… Pietro però non ne fa un vanto, anzi si schermisce dalle dimostrazioni di quel potere, che preferisce esercitare di spalle, non visto, suscitando qualche sospetto. Il padre, rude nella sua solitudine di vedovo e nei problemi economici che si porta dietro, non vede di buon grado quel possibile potere del figlio e accetta con riluttanza le visite di un professore universitario che vuole studiare il ragazzo. In questa scena Antonio Bigini si muove con la discrezione di un realismo tutto puntato sul sottotono, sul contenimento: la rievocazione d’epoca lavora sui pochi elementi di una astrazione rurale ferma nel tempo, affidata prevalentemente agli umori, ai colori, alle gestualità, all’approccio di una rappresentazione nutrita da una minimale sacralità dei gesti di sapore quasi olmiano (ma viene in mente anche il cinema liminare di Mario Brenta).

 

 

 

La triangolazione che vede Pietro al vertice del rapporto tra il padre, incupito e impotente nella sua miseria, e il professore che, col suo accento americano, gli apre l’orizzonte di un mondo fatto di poteri invisibili, spinge il film nel campo di una costruzione psicologica fine nella sua semplicità. C’è un profondo senso della verità che nutre questa opera prima costruita proprio sul valore del dubbio: l’insicurezza di Pietro, che teme le ricadute del suo potere, diventa la traccia su cui tutti gli elementi narrativi confluiscono, costruendo una rete che trattiene tanto il livello realistico quanto quello fantastico, ovvero tanto lo spazio della realtà quanto quello dell’immaginazione. I timori del ragazzino, che cerca di fare giustizia sull’odioso usuraio che perseguita il padre, restano sospesi sull’esito delle sue azioni, tanto quanto la riuscita del test che gli aprirebbe le porte del premio americano. Bigini lavora su caratteri che hanno una dimensione umana elementare ma assolutamente coerente con la semplicità della scena sociale e storica in cui si muovono: il coraggio con cui questo regista tiene la barra fissa su un realismo minimale, scevro da qualsiasi lirismo così come dai facili simbolismi da cinema art house europeista, è davvero notevole. E testimonia di un purismo filmico che lascia presagire belle cose: basti pensare a ciò che riesce ad ottenere dal suo giovane protagonista, Martino Zaccara, e dalla fotografia di Andrea Vaccari, per capire come il suo lavoro di sottrazione e di contenimento sia una traccia registica molto precisa e consapevole.