Polvere, sudore e cazzotti in testa: torna Lo chiamavano Trinità

Il nichilismo di base è lo stesso, un misto di curiosità e indifferenza che maschera un equilibrio etico di fondo, in cui si tempera il vero approccio alla realtà… Trinità entra nella scena del western italiano degli incipienti anni ’70 alla stessa maniera in cui sei anni prima aveva fatto il suo ingresso lo straniero senza nome di Sergio Leone: polvere, solitudine e dissimulazione. Il cavallo senza cavaliere trascina una treggia su cui dorme saporitamente uno straccione scalzo incrostato di terra, gli stivali appesi a strascico ospitano scorpioni, il cappello è un ricettacolo di polvere e lo sarà per tutto il film: ognuno degli attributi dell’eroe western è svestito e lascia spazio alla sagomatura slapstick del tramp metropolitano applicata allo scenario della Frontiera. È lo stadio successivo del declassamento mitopoietico operato a monte da Sergio Leone nel 1964, consegnandoci l’eroe solitario di Per un pugno di dollari con un’entrata in scena che Enzo Barboni Clucher prende evidentemente a modello in Lo chiamavano Trinità, per spingerla beffardamente ancora più a fondo: stesso silenzio che enfatizza i rumori, stesso svilimento del destriero (cavallo che traina la treggia al posto del mulo cavalcato da Clint Eastwood), stessa solitudine che si aggrappa al soddisfacimento di un bisogno eminentemente fisico (la sete per lo straniero leoniano, i fagioli per Trinità), stesso approccio disinteressato alla scena in cui entra, stessa empatia per i perdenti…

 

 

L’unica differenza, non da poco, è che questo non è uno straniero senza nome: sin dal titolo l’eroe di Enzo Barboni nasce nel segno di una nominazione che incute timore ed è il marchio della sua fama infame. Siamo dunque nella sfera piena del mito, che però gioca a rimpiattino con lo svilimento dell’immagine cui lo stesso Trinità si dedica con chiara dedizione. La dissimulazione nasconde nell’aspetto esteriore l’abilità micidiale delle sue mani, amplificata dal ricongiungimento con il suo “aiutante”, il corpulento Bambino, che invece incarna a vista le sue qualità di fisica invincibilità. La scena si arricchisce di un azzimato villain che articola i suoi piani con elementare ingordigia, attorniato da tirapiedi patetici nella loro minacciosità che si squaglia davanti ai due eroi. È un gioco western jacovittiano (Cocco Bill nasce nel 1957 e la mucca sul tetto dell’osteria potrebbe essere una citazione, mi viene fatto notare…), che ricolloca gli schemi slapstick del cinema americano sulla scena della Frontiera, passando attraverso la tradizione del teatro popolare italiano. Ma articolando anche gli schemi circensi del clown, in un intreccio delle caratteristiche dell’Augusto stralunato e pasticcione e del Bianco abile e severo, suddivise tra le figure di Terence Hill e Bud Spencer. La definizione fisica dell’azione si concretizza in un meccanismo di botta e risposta tutt’altro che verbale (la laconicità di Bambino e superata di poco dalla loquacità di Trinità), ma resta pur sempre una fisicità che non produce mai morte, in spregio al dispendio di cadaveri che la giovane ma già consolidata tradizione dello spaghetti western aveva profuso a piene mani. La vera epica è quella raccontata dalle memorie del botteghino italiano (e anche internazionale) e da generazioni cresciute con un film che ha ricodificato la riscrittura all’italiana del western. Un ulteriore passo avanti lo farà un paio d’anni dopo la sublime reinvenzione operata dal Provvidenza di Tomas Milian per mano di Giulio Petroni, e un passo di lato lo spin-off messo in scena da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nell’impagabile I due figli dei Trinità di Osvaldo Civirani… Cinema memorabile, tanto quanto poco memorabile è purtroppo il restauro tutt’altro che soddisfacente approntato per questa riedizione del film in occasione del 50 anniversario: colori sfalsati e scene diurne dalla definizione a tratti imbarazzante. Un vero peccato, soprattutto perché la si consegna a un’edizione bluray a lungo attesa.