Psichiatria galleggiante: Sull’Adamant – Dove l’impossibile diventa possibile di Nicolas Philibert

Galleggia sulla Senna, ma non è l’Atalante. È l’Adamant, che dal 2010 è ormeggiata sul Quai de la Rapée, 12me arrondissement di Parigi, non lontano dalla Gare de Lyon. L’Adamant è un “centre de jour,” ovvero in italiano un centro diurno, per utenti psichiatrici. Uno di quegli spazi più o meno aperti che la psichiatria democratica basagliana ha pensato e realizzato come luoghi in cui l’azione terapeutica e l’interazione sociale si integrano, tenendo insieme operatori, pazienti, volontari, familiari… Sull’Adamant è salito Nicolas Philibert per realizzare il suo nuovo lavoro – con cui ha vinto l’Orso d’Oro alla Berlinale 73 – e per tornare a parlare di psichiatria. Ma soprattutto per tornare a dare volto e parola a persone che con i disturbi psichiatrici convivono. Nel 1997 il documentarista francese aveva girato La moindre des choses, uno dei suoi film più belli e importanti, realizzato nel cuore dell’ospedale psichiatrico di La Borde, una struttura a due ore da Parigi in cui la direttrice, Linda De Zitter, svincolava la psichiatria da concetti come il contenimento fisico e l’istituzionalizzazione dei pazienti, lavorando sulle forza catartica dell’espressione e liberando le energie creative degli utenti. Venticinque anni dopo Philibert ha sentito il bisogno di occuparsi nuovamente di questo tema, e lo ha fatto osservando da vicino una realtà che però sta nel cuore di Parigi, quindi installata nel corpo stesso della società francese.

 

 

Non che questo aspetto rientri formalmente nella riflessione del film, ma ha di sicuro un valore simbolico concreto, perché come dice il regista “negli ultimi venticinque anni, la situazione della psichiatria pubblica si è deteriorata considerevolmente: tagli di bilancio, diminuzione dei posti letto, mancanza di di personale, demotivazione delle équipe, locali fatiscenti, il ritorno alle camere di isolamento e alla contenzione”. Situazione che sostanzialmente vale anche per l’Italia e che prospetta un problema che Philibert sente oggi di dover affrontare nel cuore della vita sociale, nella coesistenza armoniosa di un centro diurno in cui si fa musica, cinema, lettura, arte, e non come fece 25 anni fa, in un clinica psichiatrica in cui una direttrice illuminata e all’avanguardia come Linda De Zitter fa mettere in scena l’Operetta di Gombrowicz. Diretto “con la complicità” di quella stessa psichiatra, Sull’Adamant sta dunque tutto nella condizione di ascolto che nasce dal dialogo con le persone che in quel centro diurno trascorrono parte della loro vita quotidiana, impegnate in laboratori espressivi che utilizzano l’arte – in forma espressiva o anche solo fruitiva – per dare voce non tanto al disagio della malattia quanto al contagio dell’energia creativa, dell’espressione, della parola. Sarà per questo che Philibert sceglie di aprire il suo film affidandosi alla potenza del brano musicale cantato da uno degli utenti, in cui si parla proprio della forza esplosiva del pensiero che i pazienti psichiatrici si portano dentro come un detonatore.

 

 

Il regista non usa mai la forma dell’intervista, naturalmente, ma si pone in osservazione di un mondo che lo stimola perché è “uno specchio deformante che dice molto sulla nostra umanità”. L’Adamant diventa allora il set in cui Philibert trova lo spazio per il confronto tra disagio e integrazione, dove le persone mettono in gioco quella moneta di scambio della loro accettazione che è la parola. L’azione, il fare, è d’altro canto una funzione relativa proprio al mettersi in gioco col proprio malessere oggettivato: detto, esposto, offerto e in qualche modo barattato per ottenere ascolto, accettazione e spazio per esprimersi. Certo, l’impressione che si ha rispetto all’operazione compiuta dal regista in La moindre des choses è che ora Philibert si ponga prima di tutto (e sin dal titolo scelto) l’obiettivo di dare valore al senso dello spazio di socializzazione che l’Adamant garantisce alla società. È come se il contenitore prevalga sul contenuto, probabilmente per l’urgenza di dichiararne il valore e l’importanza in un momento in cui il sistema sanitario tende a svalutarne l’essenziale contributo (“ancora per quanto?” si chiede infatti alla fine il regista). Ma Sull’Adamant conserva intatto lo spirito di Nicolas Philibert, la dolcezza del suo approccio, la permeabilità umana del suo sguardo, l’attenzione del suo ascolto, la disposizione rispettosa del suo filmare.