La scena del cinema di Sergei Loznitsa è sostanzialmente sempre quella: il confronto imperturbabile, eppure pietoso, col sentimento dello scadere dell’umanità. Krotkaya (Une femme douce, Concorso) conferma una narrazione iniziata dal regista nei suoi film precedenti (My Joy e In the Fog) e perpetrata nei suoi documentari sino ad Austerlitz. Anche qui Loznitsa spinge la sua protagonista in una scena che è una trappola disumanizzata e disumanizzante, un evento che la avvita sull’ineluttabile destino di perdita che le appartiene. Sul volto emaciato di Vasilina Makovceva il regista scrive così in Krotkaya la storia di una donna che, determinata come uno zombi nemmeno più affamato d’umanità, procede ingenua e imperterrita nella sua ricerca. Un viaggio, il suo, che ha tutte le stimmate della morte, senza nemmeno la redenzione del sacrificio: il pacco che ha come sempre inviato al marito in prigione torna al mittente senza nessuna spiegazione e a lei non resta che mettersi sul treno e recarsi nella lontana città dove l’uomo è detenuto per avere sue notizie. Come sempre in Loznitsa, però, il viaggio è una trappola quasi dantesca in un inferno dove verità, giustizia, solidarietà non sono di casa. La scena diviene quindi uno continuo dispiegarsi di dispersa umanità che espone la propria miseria: il viaggio in treno distilla luoghi comuni sul tradizionale spirito russo, l’arrivo alla prigione sciorina l’immancabile faccia a faccia con un sistema che è violento, irridente, denigratorio e corrotto.
Nessuna risposta viene data alla donna, respinta, come il suo pacco, al mittente di un reclamo da fare chissà a chi. Sospesa tra la prigione dove tornare giorno dopo giorno, la stazione da cui ripartire rassegnata e il peloso e chiaramente pericoloso interessamento di una donna che la mette nelle mani di loschi figuri per risolvere il problema, questa “donna dolce” è destinata a percorrere sino infondo il suo destino. Non prima, però, di essere consegnata da Loznitsa a una lunghissima scena onirica, in cui sogna di essere portata a un banchetto/processo che celebra la sua ovvia sconfitta: praticamente un film nel film, tra il grottesco e il surreale (un po’ Buñuel, un po’ Ferreri…), che sembra un déjà-vu dal cinema sovietico più simbolicamente dissidente. Livido di una rabbia trattenuta, Krotkaya si sviluppa come una parabola in cui Loznitsa iscrive la realtà sempiterna del suo paese, quasi ipnotizzato nell’ineluttabilità della perdita d’umanità che lo caratterizza e del frantumarsi del senso di comunità. La tensione insiste su un reiterarsi dell’avvitamento della protagonista sul proprio destino, sospinta in scene che risuonano tutte lunghe e quasi ossessive. Meno incisivo dei film precedenti di Loznitsa, Krotkaya non trova il giusto equilibrio tra la spinta simbolica della storia e la verità umana della protagonista.