Senza lasciare traccia. Senza gestire la rabbia

55810_pplLa scansione ruvida degli eventi che ci legano all’infanzia, i vissuti come fossero carta vetrata su cui graffiare la realtà del mondo adulto. E in più l’idea di una corrispondenza tra le cicatrici interiori e le ferite del corpo, i mali che attanagliano i nostri organi vitali. Senza lasciare traccia, opera prima di Gianclaudio Cappai, è un film scritto su questa dimensione rabbiosa della verità, che cerca una reazione piuttosto che una ragione: non facile, scostante e introflesso, sia nella tensione emotiva che cerca e produce, sia nella definizione narrativa dei personaggi, prettamente dimensionati sulla loro funzione rabbiosa, prima ancora che sulla loro linea drammaturgica. Ma va bene anche così, già troppi ne abbiamo di film che scrivono col compasso i personaggi: Cappai preferisce buttarli in scena come fossero galli da combattimento, un po’ ottusi nella loro determinazione ad agire, eppure sanguinanti nelle ferite che si procurano e ci offrono. Bruno (Michele Riondino), il protagonista, sta lottando con un cancro che lo consuma non meno di quanto faccia la memoria di una violenza subita in infanzia, di cui porta le tracce nell’ustione che sfregia la sua spalla destra. L’ombra è un vissuto di rancore, che la quotidianità della vita adulta, di uomo sposato, ricopre senza dare spazio alla riconciliazione con quel se stesso bambino che, nell’infanzia trascorsa ai margini di una fornace,  era inciampato nelle torbide attenzioni di un fuochista seguendo l’attrazione per la compagna di giochi Vera. L’evento è il riflesso oscuro di uno specchio in cui Bruno si riflette ancora e dove non cessa di rivedere la sua vita, compreso il male contro il quale sta combattendo. Così, quando la moglie Elena (Valentina Cervi), restauratrice, accetta un lavoro proprio nel paese della sua infanzia, per Bruno è inevitabile seguirla: tornare, ritrovare, rivivere, rimarginare sono le tracce che decide di seguire segretamente, per rettificare una memoria che non gli dà tregua. E ritrova la fornace, ritrova Vera (Elena Radonicich) sbattuta ma non sfiorita, stretta a quel luogo e al padre  Giulio (Vitaliano Trevisan): i due combattono, a loro volta, con un loro cancro, quello dei debiti che si stanno mangiando la fornace.

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Il tempo trascorso maschera Bruno e gli permette di introdursi in casa di Vera e Giulio come uno sconosciuto, innescando un gioco lento in cui il malessere è l’unica vera regola alla quale si attiene Cappai. Il film instilla amarezza nella tensione che produce in scena, cerca e ottiene dai suoi personaggi una furia interiore che non ha nulla di razionale e risponde a una ragione del filmare che è tenacemente aggressiva, fisica, intransigente nella sua pregnanza emotiva tanto quanto lontana da evoluzioni psicologiche. In questo Gianclaudio Cappai lascia persino che il film soffra nella sua dimensione 92681drammatica, non si preoccupa di dare delle coordinate plausibili alle relazioni, preferendo che tutto sia gestito dalla furia del fuoco riacceso nella fornace. Senza lasciare traccia vibra così di una pulsionalità pura, naturale, senza remore, che divora i personaggi e li lascia sconfitti nella loro mancanza di pietà. La grana della fotografia di Fabio Paolucci, esaltata dalla scelta di girare in Super16 mm, è scorticata come i corpi, i fumi che esalano dalla fornace intossicano la tensione psicologica, rendendola meramente primaria: rabbia, rancore, violenza – c’era già molto in So che c’è un uomo (Venezia 2009) e anche in Purché lo senta sepolto (Torino 2006), i due corti realizzati dal regista cagliaritano. Cappai non rinuncia a immergersi nella tensione, preferisce usarla invece di gestirla, anche a costo di non governare sino in fondo un film che non è certo esente da rischi e da difetti. Del resto l’elemento meno convincente del film, perché il più incongruo, è il versante che vorrebbe essere integrato, razionale: il controcampo offerto dalla figura della moglie, Elena, didascalica nella sua funzione di restauratrice, donna che ripara il danno alla quale Cappai consegna il finale nella sua oscurità, nella sua non dichiarata – né mostrata – violenza definitiva.