SIC37 – Anhell69 di Theo Montoya: il buio oltre la siepe

Un paesaggio nebbioso, un campo lungo estremo su una città cinta dalle montagne; un carro funebre la attraversa con destinazione ignota, un primo piano sul volto del cadavere di un ragazzo nella bara trasportata dal carro funebre; una voce off maschile, che siamo indotti ad attribuire al ragazzo, racconta la sua storia, collocandola prima di tutto a Medellín, città «senza orizzonte» proprio perché cinta dalla Cordigliera delle Ande. È l’inizio di Anhell69, lungometraggio di esordio del giovanissimo regista colombiano Theo Montoya, in concorso nella sezione Settimana internazionale della critica che affianca la 79a edizione del Festival del Cinema di Venezia. In quella manciata di secondi tutto ci parla già della possibilità o impossibilità di vedere e – con la Cordigliera chiamata a far la parte della «siepe» leopardiana che dall’«ultimo orizzonte il guardo esclude» – della correlata possibilità o impossibilità di immaginare l’«immensità» del reale, con i suoi spazi «interminati» e il suo tempo «eterno». Ma il sublime romantico della siepe, in cui il limite (limen) serve a far scattare l’immaginazione statica («sedendo») del poeta, a Medellín si trasforma nel senso di imprigionamento e di claustrofobia provato da una generazione di giovani, di cui il cadavere comincia a raccontare la storia, che vorrebbero fuggire verso un altrove e un futuro non ben definiti.

 

 

Il punto di conflagrazione delle due immagini, quella moderna e quella post-postmoderna, si manifesta quando lo spettatore, insieme ai giovani colombiani, capisce che la fuga verso quell’altrove e quel futuro è impossibile proprio per la loro incapacità di immaginare per se stessi una vita diversa da quella presente. Il cadavere è quello di un giovane regista morto mentre stava preparando il suo primo film, un B-movie in cui i giovani abitanti di una città distopica sono affetti da spettrofilia (attrazione sessuale per i fantasmi) e il regime di polizia che governa la città sguinzaglia contro di loro un esercito di cacciatori, gelida parodia dei comici ghostbusters dell’omonimo film del 1984, con il compito di eliminarli. Gli attori scritturati per il film sono giovanissimi esponenti della comunità queer di Medellín, tra cui Camilo Najar, di cui il regista si invaghisce assegnandogli la parte del protagonista, ma il giovane muore di overdose da eroina, e dopo di lui muoiono anche gli altri attori e infine il regista, cosicché il film resta incompiuto. Come il film-nel-film si perde tra le morti tragiche dei suoi attori fittizi, il film che stiamo vedendo, Anhell69, si perde per l’incapacità di sognare, di immaginare il futuro dei giovani reali cui il totalitarismo machista e guerrafondaio e la corruzione del governo colombiano ha tolto ogni slancio ideale.

 

 

A differenza di quelli fittizi, i giovani reali sembrano impermeabili a qualunque attrazione per gli spettri, intesi etimologicamente come ‘strumenti per vedere, immaginare, fantasticare’ (spectrum deriva da spec-, radice di spicere ‘vedere’ e –trum ‘strumento’). Il giovane regista, sia quello reale che quello fittizio (che alla fine …), tenta di curare i suoi coetanei da quell’anempatia cronica con una medicina, moderna come la «siepe» leopardiana, la cui efficacia sulle giovani generazioni è stata da tempo messa in discussione. Montoya sembra proprio partire da qui, da un dubbio cruciale, che riposa su un vuoto (lo stesso in cui cade il film-nel-film): continuare a fare cinema, continuare a intendere «il cinema come salvezza», è ancora possibile? è ancora possibile offrirlo ai giovani del presente, nati e cresciuti in un mondo in cui le immagini cui sono assuefatti appartengono ad altri media, come strumento per vedere se stessi, immaginare il proprio futuro, fantasticare sulla propria felicità?