Smetto quando voglio Ad honorem e la transizione dei generi italiani

Dove eravamo rimasti? Il bello di una saga come Smetto quando voglio è che non si perde in spiegoni e riassunti all’inizio dei vari capitoli, e già in questo si nota la distanza da certa narrazione para-televisiva che da tempo infetta il concetto di genere all’italiana. Ma c’è di più: c’è la possibilità di offrire un punto di vista privilegiato sull’altra grande transizione, quella che ha portato il mercato cinematografico nostrano dall’inesorabile appiattimento sulla commedia alla riscoperta delle formule narrative all’americana. Uscito nel 2014, il primo Smetto quando voglio precede infatti gli exploit alla Lo chiamavano Jeeg Robot e già tenta un’ibridazione fra i modelli formali della narrazione statunitense (lo spunto in fondo è lo stesso della famigerata serie Breaking Bad) e la commedia tricolore, attraverso uno sguardo (in) acido sulla precarietà dei ricercatori universitari in un’Italia ormai apatica e interessata solo ad annullarsi nello sballo per mettere da parte i pensieri e i dolori. Eppure, rivisto oggi, quel capostipite sembra lontano molte miglia dalla sua conclusione, per la calibratura che cerca in ogni caso di non uscire troppo dai margini della commedia. Il gap con i due capitoli finali (il precedente Masterclass e questo Ad honorem) diventa così il terreno di sperimentazione per un cinema che oggi si fa forte della consapevolezza dei generi e della voglia di usarli: action, poliziesco, chase movie, fino a quest’ultimo escape-movie con tanto di “grande fuga” da Rebibbia della “banda dei ricercatori” per sventare il piano di morte definitivo del villain Luigi Lo Cascio.

In mezzo ci sono gli anni che hanno reinventato il linguaggio e possono oggi permettere di sciorinare un perfetto action-comedy all’italiana, ma anche un periodo che ha finalmente scardinato la tipizzazione degli attori nostrani, lasciando spazio al gusto per l’invenzione dei caratteri: come il Murena di Neri Marcoré, lontanissimo dalle tipiche figure ingenue e allampanate dell’attore; o la grintosa poliziotta Paola di Greta Scarano, da confrontare con la vittima di Senza nessuna pietà o la tossica di Suburra; e infine il Walter di Luigi Lo Cascio, appunto, scheggia nichilista fra la megalomania degli scienziati pazzi bondiani e il cuore ferito degli antieroi noir, che sfrutta con intelligenza il background delle figure problematiche cui l’attore ci ha abituato negli anni, ma sotto una luce nuova. Il tutto senza dimenticare l’istrionico leader Pietro di Edoardo Leo, sintesi di genio e cialtroneria. La visualità acida, con colori sparati e tinte verdastre che ammantano gli ambienti della narrazione, diventa così il sintomo di una mutazione che è reinvenzione di un mondo. Quello della Roma che sta fra il nero delle strade notturne inquadrate nei titoli di testa, il bianco del murale di Zerocalcare a Rebibbia che si intravede in una scena topica e l’austerità caciarona di un mondo universitario ingessato nei suoi rituali, ma in realtà percorso da fremiti umanissimi rispetto a un’Italia che ne sopporta a stento la presenza. Qui si crea la perfetta sinergia fra commedia e azione: la stasi del mondo accademico si stempera infatti in una visione molto critica di un’Italia che non sa sfruttare le sue risorse e, anzi, le spinge a combattersi in nome dell’arte dell’arrangiarsi.

Da questo punto di vista, Ad honorem crea la perfetta sintesi fra il primo e il secondo capitolo: come il secondo, sfrutta infatti ogni occasione per la messinscena dell’azione, memore della lezione di certo cinema ipervitaminico e pop degli anni Sessanta (possiamo citare Sette uomini d’oro), dei più virtuosi esempi contemporanei (si pensi ai Manetti Bros), ma senza dimenticare i blockbuster hollywoodiani recenti (il trauma sepolto nel passato di Walter rifà il prologo del Godzilla di Gareth Edwards, chiudendo il cerchio con i richiami a Bryan Cranston). E come il primo capitolo, il film non si limita al divertimento, ma cerca di contestualizzare le traiettorie del genere in una visione critica della realtà nostrana, fino a un lieto fine che in realtà non mette in discussione lo status quo: i ricercatori salvano il mondo, ma nulla ci viene detto circa la possibilità che il loro talento sia infine riconosciuto, che l’Italia li acclami finalmente come gli eroi che sono. Il fuori campo diventa così il terreno per le possibili speculazioni su un futuro che non immaginiamo tanto diverso dal solito. Resta in ogni caso la riuscita e l’autenticità del progetto, che speriamo sarà soltanto una tappa lungo la faticosa ricostruzione dei generi italiani.