Sono cose della vita: Beautiful Things di Giorgio Ferrero e Federico Biasin

Presentato all’interno della Biennale College alla Mostra del cinema di Venezia del 2017, arriva in sala Beautiful Things, un oggetto alieno e difficile da catalogare soprattutto nel panorama cinematografico italiano. Suddiviso in quattro capitoli uniti da una quinta pista narrativa apparentemente slegata dal contesto, il film è una sorta di sinfonia visiva che unisce immagini di rara bellezza e potenza evocativa a una colonna sonora che probabilmente è la vera protagonista dell’operazione. Ferrero infatti nasce come compositore (tra le altre, sono sue le musiche di Sette opere di misericordia, dei fratelli De Serio) e non rinuncia a quella che è per lui la prima passione anche in questo esordio dietro la macchina da presa. Pecca forse di un po’ troppa ambizione, ma se Beautiful Things, a fin dei conti, resta una delle migliori e più affascinanti opere italiane degli ultimi anni, lo deve principalmente al suo coraggio. Ferrero e Biasin scovano quattro personaggi sparsi in tutto il mondo e lasciano che questi si raccontino davanti alla loro cinepresa. Conducono esistenze lontanissime tra loro e sono tutti dediti al lavoro che esercitano quotidianamente. Lo sguardo del film è mirato a incastonarli proprio all’interno dell’ambiente in cui esercitano le loro attività, restituendo una sorta di simbiosi biunivoca in cui da un lato sono loro stessi a dar vita allo spazio che li circonda, dall’altro è il luogo in cui lavorano che sembra inglobarli e inghiottirli più del dovuto.

I registi sono bravi a dar forma a questo muto dialogo fatto di primi piani e campi lunghissimi, inquadrature geometriche e rigide intervallate da stralci di video amatoriali ben più caldi e appassionanti, riuscendo a restituire sullo schermo un equilibrio formale ed emotivo di difficile tenitura. Eppure il vero asso nella manica del progetto è da ricercare all’interno delle pieghe tematiche portate in scena. La traduzione del titolo è mirata a valorizzare la bellezza delle cose. Già, proprio perché di oggetti immateriali si parla: petrolio, suoni, spazzatura, navi cargo. Non tanto (o forse sarebbe meglio dire non solo) un film legato alla salvaguardia dell’ambiente, quanto una metafora della ciclicità della vita, con le sue diverse età che dalla nascita covata nei meandri più profondi della Terra culmina con la cremazione finalizzata a un riciclo esistenziale. Tutto è fermo in Beautiful Things, immobile. Eppure il fascino e il richiamo dell’irrazionale diventa irresistibile. Poco importa, in fin dei conti, in quali esperienze pregresse ci siamo imbattuti, quale percorso abbiamo intrapreso e quanto lungimiranti possiamo dimostrarci nel curare le nostre tappe future. Alla fine del viaggio, quello che conta davvero, è una danza forsennata in un centro commerciale deserto ma carico di luci al neon in grado di illuminare divinamente il volto della persona amata: un gesto liberatorio e unico capace di spazzare via in pochissimi istanti un’esistenza grigia e claustrofobica calibrata al dettaglio. Cose belle, appunto.