C’è un soffio di vita soltanto di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini e l’inarrestabile energia di corpo e spirito

 

Il corpo di Lucy, novantaseienne nata uomo da genitori emiliani, registrata all’anagrafe di un paesino del Piemonte come Luciano Salani, è un corpo fermo nonostante l’età, così come fermissimo è il suo spirito, entrambi ancora vigili e pronti a rispondere con forza e lucidità alle sollecitazioni del mondo circostante, anche se quel mondo è il più delle volte vissuto per procura attraverso amici e aiutanti. Un corpo e uno spirito passati al calore bianco di una vita fatta di metamorfosi radicali, traumi personali e collettivi indelebili, scelte coraggiose, ma soprattutto di una inarrestabile energia vitale, che ha trasceso lungo tutto il Novecento schemi, barriere, pregiudizi, limitazioni, arrivando intatta fino a noi. Davanti alle videocamere e ai microfoni attentissimi di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, che ne hanno immortalato la testimonianza preziosa nel documentario C’è un soffio di vita soltanto, fuori concorso al 39esimo Torino Film Festival nella sezione «Incanto del reale», dall’alto della vetta del quasi secolo di vita Lucy dichiara candidamente che non ha mai voluto far rettificare il suo nome all’anagrafe perché quello è il nome che le hanno regalato i suoi genitori e di conseguenza è il suo nome e soprattutto «perché una donna non può chiamarsi Luciano?», dimostrando che è giunta intatta fino a noi anche la sua libertà dagli schemi imposti, dall’educazione ricevuta, dagli stereotipi mortificanti, tutti peccati veniali che a una donna della sua età potrebbero senza remore essere scontati.

 

 

Un’energia e una libertà che non si tirano indietro neanche quando fanno i conti con ricordi lontani e dolorosissimi, che la mente di una donna della sua età potrebbe altrettanto senza remore scontarsi, come le molestie subite durante l’infanzia da un prete e poi da altri uomini che estorcevano i suoi favori sessuali con regali subdoli, o come l’orrore del campo di concentramento di Dachau in cui era obbligata a raccogliere i corpi dei suoi compagni, anche quelli non ancora morti, e portarli nei crematori. Un’energia e una libertà che si sono dispiegate facendo del suo corpo trasformato un tempio di divertimenti e guadagni, ma anche adottando una bambina rimasta orfana e morta precocemente o ospitando un immigrato nordafricano, insomma festeggiando la vita in ogni sua forma nonostante tutto il male vissuto. I due registi l’hanno scovata nella sua casa popolare nella periferia bolognese, si sono immersi per un anno nella sua quotidianità fatta di ricordi, ma soprattutto di incontri e momenti di solitudine, filmati con una delicatezza che ci restituisce in modo rispettoso una corporeità ancora intensa, forte anche quando incespica, mai separata dallo spirito tenace che la dirige da quasi cento anni. Le voci sono quelle del presente e della realtà della vita di Lucy, il racconto procede con una fluidità che sembra governata da lei, che riempie anche gli intermezzi di repertorio, che ci immergono nella fantasia di Lucy, divoratrice di film di fantascienza, ancora una volta sfidando i cliché legati all’età…