Tff2018 – L’equilibrio precario di Happy New Year, Colin Burstead di Ben Wheatley

Per celebrare l’arrivo del nuovo anno, Colin Burstead organizza un grande ricevimento in cui tutta la sua famiglia è invitata a partecipare. La notte dei festeggiamenti, chiaramente, vecchi rancori e tensioni del passato verranno a galla lasciando poco spazio alla serenità auspicata. Detta così, la sinossi di partenza del nuovo film del britannico Ben Wheatley sembra discostarsi di molto dalle tendenze a cui il regista ci ha abituati negli anni: niente sparatorie, niente metafore distopiche o ambientazioni grottesche. Wheatley si concentra su una dimensione più intima e quotidiana per raccontare la crisi di valori odierna, una dimensione che tutti noi conosciamo e possediamo, quella familiare. Il rischio di incappare in un progetto simile alle corde autoriali di alcuni registi nostrani (si legga Muccino con il recente A casa tutti bene) era elevato, fortunatamente però il cineasta britannico si conferma ancora una volta padrone di uno sguardo tanto solido quanto originale, orchestrando un film corale con ritmo e sapienza cinematografica, riuscendo a dedicare a ogni singolo personaggio il giusto peso all’interno della narrazione e a intrecciare con gusto momenti di ilarità ad altri decisamente più drammatici. Happy New Year, Colin Burstead è un film di attori, non solo perché l’unità spaziale claustrofobica richiede uno sforzo maggiore agli interpreti, ma anche perché, come si evince dai titoli di coda, la sceneggiatura è firmata dal regista con una massiccia presenza di improvvisazione. I personaggi, quindi, si muovono in autonomia e libertà, seguendo un canovaccio preimpostato ma mai ingombrante. Non si tratta solo di una sfida stilistica, di un vezzo artistico, ma di una vera e propria dichiarazione di intenti.

 

Il film infatti riesce a riflettere con fare velato, ma al tempo stesso decisivo, il clima raffazzonato e, per l’appunto, improvvisato dell’Europa contemporanea, dove una serie di Paesi con culture profondamente diverse (gli innumerevoli individui della famiglia) preferisce nascondere lo sporco sotto il tappeto e continuare a prolungare una convivenza forzata piuttosto che avere il coraggio di guardare la realtà dei fatti e proclamare il fallimento dell’unità. Solamente Colin, l’organizzatore del ricevimento, troverà il coraggio (o la disperazione) per scappare da tutti e respirare un po’ di solitudine (ogni riferimento alla Brexit non è puramente casuale). Wheatley firma così un film isterico e pressante, giocato sui primi piani e su uno stile grezzo in grado di unire rapidissima zoom a estenuanti long take con camera in spalla, abbracciando così idealmente il concetto di un collettivo in forte equilibrio precario, costituito da individui inaffidabili ed egoisti. Per interpretare e migliorare la realtà che ci circonda, non bisogna scomodare i massimi sistemi. Nel nostro piccolo, nella nostra personale dimensione (individuale e familiare) gravitano le stesse problematiche. La rivoluzione, ci dice il regista, deve iniziare dal basso. Solo così si potranno davvero cambiare le cose anche in cima. Wheatley lo sa e con il suo cinema personale continua a combattere verso un cambiamento produttivo che ad oggi ancora pare un miraggio, ma per il quale vale la pena continuare a insistere.