TFF40 – Le dinamiche del potere in War Pony di Gina Gammell e Riley Keough

 

Sin da subito l’impressione che si coglie guardando le prime immagini di War Pony, opera prima delle due registe, è che ogni cosa accada all’interno di dinamiche di potere ben precise, conflitti antichi ormai sclerotizzati nel rispetto di ruoli e di scale gerarchiche mai davvero messe in discussione. Prima di affrontare le premesse però qualche parola sulle due registe di questa solida opera prima che rappresenta, fino al momento, una delle punte più alte del Concorso della quarantesima edizione del festival torinese. Gina Gammell oltre che regista è anche produttrice e Riley Keough, nipote del sempre vivo Elvis Presley, è di suo anche attrice e qui insieme, dopo avere vinto la Caméra d’or a Cannes per il migliore esordio, hanno mietuto ulteriori consensi di pubblico risultando il film dopo le proiezioni in sala tra quelli più amati e ricordati.

Tutto si svolge nei territori della riserva di Pine Ridge in Sud Dakota, in passato la terra dei Sioux. Oggi i nativi sono ridotti ai margini, senza prospettive e senza un reale legame con il presente. È così è Matho, ragazzino senza casa e senza famiglia dedito fin da quell’età infantile al fumo e al traffico di piccole dosi di droga. Diversa è la storia del giovane Bill che cerca, pur nelle difficoltà che vive, la fatica di una stabilità desiderata, economica e familiare, di uscire da ogni cliché malavitoso per una vita più normale e un futuro migliore per i figli, due bambini da due ragazze diverse. Sono queste due solitudini destinate a incontrarsi per – forse – dare inizio a una reciproca e meritata stabilità.
Ma, come si diceva in premessa, il film, dalla incredibile forza espressiva, tutto teso in un racconto senza pause che si divide equamente tra le vicende, solo poco lontane, dei due protagonisti, vive di un sotterraneo filo che si fa sempre più visibile e costituisce premessa e causa di ogni male. Sono i rapporti di potere tra i dominanti e i dominati, quei rapporti che qui sono rappresentati dal perfido e inaffidabile padrone bianco della tenuta presso cui lavora Bill. Proprietario di una terra di sicuro depredata ai nativi lui si comporta da padrone assoluto con diritto non scritto di vita e di morte su quelle terre. Una affermazione di potere che segna l’intera vicenda dei sottomessi nativi, incapaci perfino di ripetere i riti del passato.

 

 

War Pony, titolo che fa riferimento al nome che gli indiani d’America danno ai loro cavalli, vive su queste tensioni e non è affatto trascurabile che a suo modo sappia viaggiare anche controcorrente in un panorama piuttosto povero, nonostante tutto, di controcanti autentici che fotografando gli effetti di sfilacciamento dei tessuti connettivi di antiche comunità, ricche di tradizioni e di storia, vivono una condizione di soggiogazione ormai quasi arcaica. Tutto questo conservando i caratteri di un film essenzialmente narrativo. Un risultato che è stato raggiunto non solo per l’avere dedicato una particolare attenzione alle psicologie dei personaggi, con un cast che ha supportato questo lavoro – vale la pena ricordare almeno i nomi degli attori che hanno dato il volto ai protagonisti La Dainian Crazy per Matho e Jojo Bapteise Whiting per Bill – ma per avere saputo filtrare gli insegnamenti del passato, non solo quelli del cinema, ma anche quelli della ricca letteratura confluiti in quel cinema di cui War Pony è l’erede.

 

 

Dunque denuncia sociale ed effetti delle relazioni di potere in questa invisibile terra ancora più remota della già dimenticata provincia americana. L’assenza di ogni ordine statale che non sia solo oppressivo con i dominati, produce l’effetto di rispetto di quelle regole non scritte che di solito hanno a fondamento la legge che è sempre quella del più forte, di quello che, di solito, ha un fucile. War Pony sembra osservare e raccontare, con partecipazione e con sincera tensione verso la verità, ogni evento, ogni tratto per un cinema che è al tempo stesso figlio di quella onda ancora lunga di una antihollywood sviluppatasi negli anni ’70, e forse ancora prima. Ma anche documento vivo che aderisce e interviene sui temi di una marginalità che non sa diventare occhio e racconto protagonista di una comunità alla quale sembra siano stati esautorati i diritti e che sopravvive avendo come obiettivo solo l’oggi, senza neppure un domani in quella terra così mobile, così incerta, così mai protetta.