TFF41– Il tifo è una religione: A guardia di una fede di Andrea Zambelli

Sempre per l’onore della mia squadra e della mia città. Sempre nel rispetto della tifoseria rivale.
Mai infierito su un uomo steso a terra, mai usato coltelli, mai guadagnato soldi su questa mia passione.

(Tratto dalla raccolta Zona Franca)

 

A metà del secolo scorso l’antropologo Marcel Mauss ci ha spiegato che una folla non è un semplice aggregato di individui, ma un’unità psicologica in cui le differenze di personalità si sfumano per fusione e contagio, e dove una volontà collettiva si impone al volere del singolo che è però pronto ad assumere rilevanza. Forse bisogna partire da qui per comprendere il documentario di Andrea Zambelli  (già autore di Farebbero tutti silenzio,  graffiante mediometraggio sulla tifoseria atalantina). A guardia di una fede è dedicato alla vita del Bocia, Claudio Galimberti, anima della curva atalantina fino a quando non è stato schiantato da una repressione che ha assunto toni surreali: giova ricordare (visto che il film non lo fa) che il Bocia è stato assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di aver violato 4 daspo, ma proprio grazie a questa accusa infondata si è preso altri 8 anni  di daspo nel 2021. Il film miscela immagini di scontri, riunioni in strada, manifestazioni, tragedie,  feste della Dea, (dal 2003 l’happening annuale dei tifosi bergamaschi dove si vede di tutto: dalla mongolfiera con il presidente dell’Atalanta al carroarmato che spiana due auto con i colori di Roma e Brescia), il tutto per raccontare trent’anni di storia della curva attraverso lo sguardo e le parole del Bocia.

 

 

Un fiero proletario che “è innamorato del calcio e del suo contesto” (parole sue).  Quindi il calcio come visione del mondo. Se non attribuiamo alla partita e a ciò  che la circonda la dignità e lo spessore allegorico di una grande rappresentazione non si comprende il successo planetario di uno sport che aiuta ad esprimere identità e appartenenza. Gli ultras hanno fatto una scelta di vita volontaria ed effimera. Lo spirito di corpo che li contraddistingue e i loro atteggiamenti bellicosi si esprimono attraverso una profusione di emblemi e sembrano espressione di una permanenza residuale o del risorgere del ritorno volontario a modelli arcaici di (r)esistenza collettiva. Oggi le cose sono molto cambiate  le tifoserie possiedono un acuto senso di spettacolarità mediatica, spesso organizzano le loro associazioni in modo manageriale. La militanza dà un senso all’esistenza, ma può servire come trampolino di lancio per altre carriere (anche criminali: si pensi a Diabolik della Lazio o a Baiocchi dell’Inter, entrambi leader delle rispettive curve ed entrambi uccisi in vere e proprie esecuzioni). Il Bocia ha un vissuto differente, una purezza da ultras delle origini. La sua passione viene da un padre che sarebbe potuto diventare calciatore dell’Atalanta (giocava nella Primavera che vinse il campionato ’48 -’49), rimasto orfano fu obbligato ad andare a lavorare per dare una mano alla numerosa famiglia. Il figlio ha ereditato l’amore per i colori dell’Atalanta, da subito totalizzante e irragionevole: saltò l’esame di terza media per andare a vedere Catanzaro-Atalanta. Nel film c’è l’ultimo pellegrinaggio dei tifosi nella curva prima che venisse abbattuta e ricostruita: un rito per non dimenticare la strada fatta. Un percorso nel quale la violenza è riconosciuta e rivendicata (“io penso che fra i comandamenti caricare gli interisti bisognerebbe metterlo”) al pari della solidarietà (aiuti all’Aquila nel dopoterremoto, fondi al missionario amico…).

 

 

Il Bocia in totale si è preso 30 anni di daspo, divieto di dimora a Bergamo e provincia, anni di sorveglianza speciale e persino il ritiro della patente. Oggi vive a Senigallia lavora a bordo del peschereccio Caligo Guercio e sconta un residuo di pena aiutando in un centro ippico. Lo seguiamo al lavoro, spesso in silenzio, concentrato sul qui e ora. Sono quasi vent’anni che non può “andare all’Atalanta”  eppure è  ancora un personaggio per Bergamo. Una presenza. Che non si dissolve. Nel film si ritorna più volte sul lavoro di Andrea Mastrovito, artista bergamasco trapiantato a New York, che ha realizzato l’abside tripartito della nuova chiesa dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII inserendo un Cristo in croce che per molti ha indiscutibilmente il volto di Galimberti. A guardia di una fede propone senza commenti o dichiarazioni le immagini del pittore al lavoro. C’è però l’intervista rilasciata a suo tempo al Corriere della Sera: “Io a Claudio voglio bene. È una persona che insieme ai miei genitori e a poche altre mi ha insegnato il significato delle parole ‘amore’ e ‘rispetto’, ma non intendo scendere nel merito del mio lavoro. In tanti mi chiedono di chi sia quel volto, ma preferisco che ognuno la pensi come vuole, davvero…”.