Sotto la lente della follia: Vincent deve morire, di Stéphan Castang

L’assunto è chiaro fin dal titolo: Vincent deve morire. E a occuparsene sarà chiunque stabilisca con lui un contatto visivo. Un gesto automatico e quasi inconsapevole, che innesca una furia omicida, destinata ad abbattersi con foga sul malcapitato protagonista. Il quale, naturalmente, non potrà che fuggire, nascondersi, alimentare la sua paranoia fra le mura che lo separeranno dal mondo. Un po’ parabola del distanziamento post Covid, un po’ racconto grottesco che sembra uscito da una puntata di Ai confini della realtà, il film di Stéphan Castang – in prima italiana al Torino Film Festival 2023 nella sezione Crazies – si offre inizialmente nel segno del paradosso, quasi a voler seguire una recente tendenza del cinema francese (si pensi alle opere di Quentin Dupieux). Gli attacchi estemporanei contro Vincent scatenano quindi ilarità e sono assecondati da una regia partecipe, ma sempre quel tanto distaccata che basta da generare la distanza emotiva propedeutica alla riuscita delle gag. Lentamente, però, qualcos’altro si insinua sotto la pelle del racconto: già all’inizio della storia Vincent comunica con l’esterno attraverso device e social media, illustrandoci una solitudine che era già in atto e che la follia piombatagli addosso non ha fatto altro che esplicitare. Sempre più isolato, il nostro riesce poi a stabilire un contatto con Margaux, cameriera di una tavola calda, che pure ci appare accomunata a lui dalla tendenza a restare sola, anche perché a perseguitarla c’è il leader di una violenta banda di biker.

 

 

Il ponte emotivo che si va a stabilire fra due personaggi che non possono guardarsi negli occhi, ma condividono una medesima recondita paura verso la minaccia esterna, apre così il film a nuovi e notevoli livelli di fruizione: l’ironia rimane sempre latente, ma il racconto perde la sua estemporaneità e si fa parabola cupa, capace come poche di radiografare il senso di smarrimento dei nostri tempi. La risata in questo modo si smorza in un autentico trattato delle varie forme di solitudine che caratterizzano la società moderna, un insieme che all’incapacità di stabilire relazioni autentiche, lascia per questo spazio alla follia. Ovvero quella della violenza insensata che esplode improvvisa nelle situazioni di massa e nelle interazioni più semplici, dando vita ai fatti di cronaca più feroci. E naturalmente quella fra i sessi, con tutte le dinamiche e i problemi di serrata attualità. Usando il grimaldello del paradosso, Vincent deve morire diventa così un documento efficace sull’umanità e sulla nostra epoca, oltre che una storia d’amore impossibile e dolente, che cattura l’attenzione dello spettatore.

 

 

Castang costruisce un horror sociale sfruttando la lente deformante di una singola storia, che ha la capacità di sintesi del David Robert Mitchell di It Follows e che stupisce per quanto sia capace di restare dentro al semplice racconto di genere, dimostrandosi però anche una delle trattazioni più addentro alla nostra contemporaneità. Così, quando vediamo le persone appostate sui tetti per sparare contro chi si avvicina, quando lo stesso Vincent inizia a coltivare l’idea di curare la forma fisica in modo ossessivo per non lasciarsi trovare impreparato, capiamo che dentro la piccola idea ci sono tante realtà collegate secondo un principio dei vasi comunicanti, e un unico film che può diventare un testo multiplo, capace di aprire una finestra sotto tante realtà. Una risata non ci seppellirà, ma aiuterà senz’altro a scoperchiare il vaso di Pandora.