The Great Wall, Zhang Yimou e la sua Grande Muraglia di cartone

In tempi di muri e barriere immaginati come soluzioni controverse e definitive a ipotetiche invasioni, era logico supporre che un film sulla Grande Muraglia prestasse il fianco a un seppur minimo tentativo di collegarsi al tema così contemporaneo dei confini tra culture. E del resto, The Great Wall non è soltanto quasi interamente costruito e ambientato sul muro difensivo più imponente mai elevato dall’uomo, ma nella storia che propone intreccia la minaccia del “nemico” in arrivo all’avvicinamento reciproco fra realtà distanti e diffidenti. Eppure Zhang Yimou, ormai orfano di un’autorialità più sincera (Lanterne rosse, Non uno di meno, La storia Qiu Ju) e qui tornato a dirigere il frutto di un nuovo matrimonio produttivo tra Hollywood e Cina dopo I fiori della guerra, non ricerca esatte metafore dei tempi moderni ma si accontenta di muoversi nella gabbia di un impianto visivo magniloquente, funzionale allo scopo di un film scritto in direzione di una precisa rappresentazione del suo popolo, allo stesso tempo pensato per essere accolto anche da un pubblico internazionale senza particolari diffidenze, grazie ai volti rassicuranti e riconoscibili di Matt Damon e Willem Dafoe, che si affiancano alle celebrità di casa Jing Tian e Andy Lau.
 

 
È il confronto tra Oriente e Occidente a reggere poi tutto il racconto, in cui William Garin (Damon) è un mercenario fatto prigioniero da un esercito di guerrieri chiamato“Ordine senza nome”, impegnato a difendere l’Impero cinese dall’arrivo di un’orda di mostri famelici e distruttori conosciuti come taotie. William ha dunque l’opportunità di impossessarsi dei segreti della polvere da sparo custodita dall’Ordine, ma anche quella di comprendere meglio una cultura diversa dalla sua. In questa commistione di storia e fantasy, a metà tra war movie e Terra di Mezzo, Yimou ci mette un po’ di wuxia e tanta coreografia, tracce di horror e action, col risultato che il film non si assesta mai in una forma precisa, se non quella di una spettacolarità spinta ed esibita da un digitale scintillante che fa della scenografia una sorta di quinta a tratti invadente. In questo The Great Wall centra senza dubbio il suo bersaglio, quello di un blockbuster pensato per l’incasso e l’intrattenimento (e in effetti tutta la parte destinata alla battaglia contro i mostri invasori è assai divertente); tuttavia la poca profondità narrativa tradisce una scrittura troppo povera e convenzionale per ambire a qualcosa di più del semplice spettacolo. E così mentre la quasi totalità del film ha luogo sempre sullo stesso tratto di Muraglia, dove i combattimenti si fanno più acrobazie da apertura olimpica (evento così caro al regista che ne sembra quasi prigioniero) anziché scontri sanguinari, i personaggi stessi si perdono in una rappresentazione superficiale, dallo spreco di un Dafoe che vaga continuamente in cerca di un suo perché, fino alla liaison tra William e la comandante Lin Mae, perennemente sospesa e mai capace di appassionare. Nel suo specchiare le contrapposizioni tra Occidente e Oriente, ma anche rilevando la necessità di un’alleanza di fronte a un ipotetico nemico (un riferimento all’oggi?) Zhang Yimou tende a esaltare una supremazia intellettuale asiatica (la polvere da sparo inventata dai cinesi e la saggezza nell’usarla), lasciando ai mercenari dell’Ovest il ruolo più scaltro e fisico, dedito all’avventura, ma meno riflessivo e incline alla ponderatezza. In questo sorta di giocattolone digitale, quel che resta è solo un tourbillon estetico, specie nella parte conclusiva quando si entra nel cuore dell’Impero, dove la Grande Muraglia non va oltre lo spessore di cartone, sintesi di un regista-autore abbandonatosi ormai da tempo a prodotti commerciali che hanno l’unico intento di far colpo sullo spettatore meno esigente.