L’insulto di Ziad Doueiri: schegge di guerra (di quartiere) a Beirut

Beirut: schegge di guerra quotidiana, guerra di quartiere… La miccia è sempre lì, pronta ad essere accesa sulla polveriera del mondo arabo e L’insulto (in Concorso a Venezia 74) la raccoglie con profitto. Un meccanico cristiano, un edile palestinese, una grondaia che scola sui passanti, parole grosse che volano, insulti che richiedono scuse e scuse che provocano frasi razziste filoisraeliane, volano i pugni, si finisce in tribunale, gli avvocati si attivano, i giornalisti ingigantiscono, il quartiere si infiamma… Ziad Doueiri distilla il disagio strisciante nelle convivenze (im)possibili del mondo arabo e serve un legaldrama altamente infiammabile, che si erge come metafora immediata, pronta all’uso per una lettura da dibattito sulle problematiche dell’intera scena mediorientale. L’approccio è dinamico, pieno e dialogico, in linea con la tradizione del genere e animato da Doueiri con agilità visiva anche un po’ facile. Il disegno complessivo è opportunamente articolato, perché riduce in scala di quartiere il lascito della guerra civile che ha infiammato il Libano per quindici anni, ma anche, con sguardo complessivo, le questioni fondamentali della difficile convivenza tra gruppi in un’area che intrattiene rapporti con troppe sfumature di differenza e altrettante ferite inferte e subite da ogni parte. Il dramma si incarna nelle figure forse un po’ troppo intagliate di Toni, un meccanico cristiano libanese giunto a Beirut all’inizio della guerra civile, e Yasser, un rifugiato palestinese a capo del cantiere edile che sta ristrutturando un quartiere.

Orgogliosi e testardi entrambi, fermi su principi che si radicano in vissuti di sofferenze subite, umiliazioni patite. Storie complesse: la mano tesa si chiude facilmente a pugno, anche se poi, nella semplificazione dello script, entrambi nutrono dentro il rispetto dell’altro e la consapevolezza della propria colpa di fronte all’orgoglio altrui. Il film rende conto di un impossibile chiarimento e sbatte sul tavolo le carte di una partita che non ha vincitori né vinti, solo giocatori appesi a questioni più grandi di loro. Doueiri ci lascia con un film lucido nella sua confusione, appagati nel bisogno di argomenti per la discussione, un po’ frustrati per l’impossibilità di trovare risposte. Alla fine del processo un po’ tutti sembrano consapevoli di aver ottenuto e perso qualcosa. Non un finale conciliatorio, sia chiaro, ma nemmeno un finale di parte, qualsiasi essa sia. Il sospetto di un certo buonismo resta forte, o quanto meno di una facile ragionevolezza da tavolo, che poi per strada non ha troppo valore. Lo sa bene lo stesso Doueiri, se è vero che l’idea del film è basata su un litigio che gli è realmente capitato.