The Shape of Water – Guillermo Del Toro e la forma dell’amore

Il regista messicano in anteprima alla Mostra di Venezia con The Shape of Water, splendido tentativo di riflettere le dinamiche del fantasy nella concretezza problematica del mondo. La forma già contempla, se non una completezza, quantomeno l’idea di un qualcosa di definito: i personaggi di Guillermo Del Toro, al contrario, sono sempre in cerca di un completamento che li renda degni di stare al mondo. Perché l’autore messicano, fra i pochi della scena contemporanea, si continua a interrogare sul senso dell’esserci e del vivere, nonché sulla matrice fantastica del suo altrodove ideale in rapporto alla problematicità del vero. È ancora possibile un fantasy che riesca a esaltare al massimo le possibilità meravigliose dell’arte e sia capace di donare anche finitezza ai suoi personaggi incompleti, in uno scenario mondiale sempre più cinico e problematico? La carta in mano, dopotutto, non è quella della vulgata contemporanea che vuole mostri e freak confinati in mondi immaginari e alternativi, ma proprio nel nostro, alle pendici della Storia. A volte il conflitto è violento (Il labirinto del fauno), in altri casi è straordinariamente spettacolare (Pacific Rim), a volte più oscuro (Mimic) o articolato su una dialettica infantile (La spina del diavolo): ma è sempre un mondo in cui si evocano fantasmi di caratura universale, utili perciò a rinnovare le criticità dell’uomo.

Come accade in questo 1962 dai toni fiabeschi, quando la promessa di futuro è – letteralmente – alle stelle e l’agenzia aerospaziale diventa anche un laboratorio dove studiare l’unico esemplare individuato di un uomo-pesce filiato direttamente dal leggendario Mostro della Laguna Nera (ancor prima dell’Abe Sapiens di Hellboy, da cui riprende pure l’interprete Doug Jones). La creatura è un segno di indeterminatezza assoluta, non ha nome né voce e sintetizza un concetto di alterità che pure – in perfetta continuità con il Del Toro-pensiero – non ne sminuisce mai il valore affascinante, sensuale persino. Di qui l’impossibile storia d’amore con la protagonista Elisa, parimenti senza voce e ruolo, presenza marginale dell’impresa di pulizie che tiene in ordine la base: una figura fragile, cui Sally Hawkins dona corpo e presenza fluttuanti, tra momenti in cui appare defilata e minuta, e altri in cui la sua fisicità si staglia in primo piano. Del Toro non nasconde, ma al contempo suggerisce, innamorato di una concretezza che è comunque romantica e in grado di esaltare la forza fiabesca dell’amore. E iscrive la storia sensuale e dolce fra queste due creature sole in un reticolo di dinamiche interpersonali in grado di esaltare l’importanza della comunicazione: ecco dunque che il 1962 dell’America è sì proiettato verso il futuro, ma non tanto per spingere le reali barriere del progresso, quanto per continuare ad innalzare muri: verso il blocco contrapposto e verso le minoranze, chiaramente tenute ai margini dall’idea del Paese Migliore. La sensazione costante è quella della perdita, della prossima rinuncia a un sistema di valori insiti nella capacità di comunicare con la propria parte più ancestrale, di cui l’uomo-pesce è il simbolo. Una creatura primordiale, forse divina, che riesce a innescare e esaltare le possibilità comunicative fra queste minoranze altrimenti ignorate. Come sempre accade nel cinema di Del Toro, il punto prospettico dal quale inquadrare questo coacervo di emozioni è quello dell’amore filiale: quello, per l’appunto, che si stabilisce fra Elisa e Giles (uno straordinario e tenerissimo Richard Jenkins), figura vicaria di quella paterna, e fra Elisa e Zelda (Octavia Spencer), che fa le veci della madre. A questo prototipo di neo famiglia si oppone Strickland, capo della sicurezza in perenne ricerca del silenzio altrui e incapace di stabilire una connessione persino con le parti del suo corpo perse durante la missione. Una figura integerrima di cui pure vengono sottolineate le fragilità, l’incapacità di tenere coeso il proprio sé, grazie anche alla felice scelta di Michael Shannon, che crea una risonanza frankensteiniana, ideale nello scontro con il neo Mostro della Laguna: la narrazione, dopotutto, funziona non soltanto per quanto dice, ma anche per le dialettiche visive che ancora una volta l’autore messicano mette in scena. Fra colori che disegnano ambienti in grado di riflettere le caratteristiche dei personaggi, e un tono generale che passa dalle tinte tecno-gotiche della base militare/prigione, a quelle più calde e giallastre del finale liberatorio, il film tratteggia un mondo che partecipa delle sue forme (umane e mostruose che siano). A donare legittimità al tutto è infine il cinema, quello che resiste nella strada sotto casa, in cui il mostro si rifugia, e che crea un controcampo visivo continuo a questo mondo classico e ormai perduto, in cui la fantasia può far trionfare i sentimenti del miglior cantore dell’immaginazione contemporanea.