Il cinema dei redenti in Il buco in testa di Antonio Capuano

Senza più padri da ricordare
E senza figli da rispettare

Adelante, adelante di Francesco de Gregori

 

Lui forse non vorrebbe essere classificato così, anzi sicuramente aprirebbe una polemica e spiegherebbe con la sua parlata tra l’italiano e il napoletano, ma sempre forbita e puntuale che il suo cinema non è quello, ma noi continuiamo a pensare che il cinema di Antonio Capuano sia tra quelli dove il ragionamento forte e quindi baricentro insostituibile delle sue narrazioni, siano i sentimenti. I sentimenti duri e controversi, quelli che nascono intaccati da una inguaribile povertà di spirito, quasi cristologica, per approdare ad una pacificazione che costituisce il risultato di una via crucis compiuta fino in fondo. Il cinema di Antonio Capuano ha guardato da sempre ai redenti, a quelli cristianamente mondati dalle colpe, alle colpe stesse come viatico per un’altra possibilità di vita. A scorrere i titoli del regista, oggi ottantenne, ma con una vitalità da fare invidia ai più giovani, è questa la traccia comune che caratterizza il suo cinema, esclusivo e originale, segnato da un imprinting naturale irripetibile. Crediamo davvero che Antonio Capuano sia uno tra i più grandi autori italiani, da porre accanto ai grandi artisti che hanno fatto grande il cinema in Italia. Un autore schivo e lontano da ogni clamore, che ha costruito il suo cinema sulle macerie umane, ma senza lamenti fatalistici, senza strepiti da incompreso, facendo risorgere i suoi personaggi e mettendoli in luce dopo averli tirati fuori da un buio immeritato.

 

 

Nulla muta nel suo modo di fare cinema con Il buco in testa, Fuori concorso nell’edizione n. 38 del Festival di Torino. Ancora una volta il suo cinema istintivo e razionale, meditato e immediato, coglie dai margini di una cronaca che subissa il mondo di fatti un personaggio dimenticato, ultimo e la cui piccola storia, non è forse neppure utile che venga raccontata. Maria Serra porta con sé la privazione del padre, poliziotto ucciso molti anni fa da chi oggi è uscito dalla galera per quei fatti. Maria Serra vive una vita precaria, tra lavoro non pagato e violenze quotidiane. Non riesce ad avere una stabilità sentimentale e la madre, scioccata dopo i fatti è diventata muta. Il viaggio a Milano servirà a Maria per incontrare l’uomo che ha ucciso il padre. Un film di vuoti da riempire, come quel buco in testa di Maria alle prese, ormai da quando era molto piccola, con l’assenza paterna, in un luogo quello tra Napoli e Torre del Greco, come tutto un meridione preda di una piaga fatta di violenza subdola e silenziosa, privo di padri, di guide. Come un nord in cui i padri sono sconfitti e rischiano di non vedere più i volti dei figli. Si muove dentro questi sentimenti quasi violentati da una quotidianità che deve diventare salvezza quotidiana (un po’ come la corsa della gazzella inseguita dal leone) il film di Capuano che sa rendere cariche di sentimento anche le periferie segnate dai brutti graffiti, dalle spiagge ormai irriconoscibili, le ultime ormai disponibili.

 

 

La sua macchina da presa si fa stretta dentro i vicoli un po’ sudici e insicuri di Torre del Greco, vicoli piene di insidie e di paure. Il buco in testa per descrivere la sua Maria – che poi è l’alter ego di Antonia Custrà figlia del poliziotto Custrà ucciso a Milano durante una manifestazione politica negli anni ‘70 – utilizza un registro di robusto realismo, dentro il quale la macchina da presa fa parte del paesaggio e non è ingombro fastidioso, ma diventa connaturato ai personaggi, alle loro stanze di vita quotidiana, alle allegoriche manifestazioni delle proprie vite. Solo Capuano sa compiere questa magia senza disturbare lo spettatore e suoi personaggi, la sua cinepresa si fa sorniona e felina, ma sa colpire davvero al cuore lo spettatore. Maria che con scorbutico gesto si rivolge, con il suo viso segnato, alla macchina da presa per raccontare in poche frasi la sua vita, è davvero un colpo al cuore, è il reale definitivo che ti travolge, ti accompagna e non ti molla più. Teresa Saponangelo, la Maria del film, con i suoi lineamenti resi duri e il suo viso perennemente rabbuiato da una nuova tempesta di sentimenti, sa restituire voce e corpo a questo personaggio così comune in fondo, deluso dalla vita, irrisolto nella sua condizione, prosciugato da ogni speranza e spaventato dal futuro. Un personaggio che prova a risorgere da una infinita serie di tempeste, anche sentimentali, che fanno traballare quella precaria stabilità che prova a trovare. Con il cuore diviso tra un professore di cui scoprirà una quasi misteriosa seconda vita e un poliziotto che forse gli ricorda il padre che non ha avuto e alle prese con un’amica che deve abortire, Maria perde anche il lavoro non pagato per un’azione camorristica dentro la scuola dove lei faceva da assistente (gratuitamente) ad un docente. Una vita a pezzi che Maria prova a rimettere insieme con un viaggio a Milano, per incontrare l’uomo che molti anni prima ha ucciso il padre. È qui, in questo incontro in cui i silenzi sopravanzano le parole, in cui i ricordi si fanno più difficili da affrontare di un presente già complicato, che il film si apre alla sua vera natura, alla sua socchiusa verità. Ancora una volta tornano a gridare nella mente i ricordi di quegli anni ’70 così controversi, così forieri di sventure personali, come quelli di Maria, ma anche di drammi e tragedie collettive, come quelle di non avere saputo davvero dare utopia alle speranze, avere bruciato tutto nel fuoco di una furiosa e irrazionale prestazione di tipo militare. Tutto si è rappreso dentro quella violenza che oggi, ancora oggi, diviene colpa da espiare. È per questa ragione che Maria non capisce i discorsi di Guido l’ex autonomo che all’epoca ebbe in mano la pistola dalla quale partì il colpo che uccise suo padre. Nessuna Maria capirà questi discorsi che ormai si sono fatti lontani dalla gente; all’epoca perché veicolati dalla violenza, oggi perché nel tempo si sono scoloriti i toni e le persone che le raccontano. Infatti, oggi Guido è un personaggio ripiegato anche fisicamente su sè stesso, colpevole che sa di essere colpevole. Un padre sconfitto anche dal giovane e arrogante figlio. È con questi sentimenti ancora una volta contrastati che Capuano si avvicina a quegli anni, per guardarli da lontano, ma anche strettamente da vicino, per trovare una chiave che rimargini definitivamente le ferite e chiuda un’epoca da affidare solo alla storia. Come il cinema di Eastwood anche quello di Capuano, come solo quello di Amelio ha fatto finora, si occupa di una paternità perduta, di una assenza colpevole dei padri e di chi padre non ha saputo esserlo. Le parole finali pronunciate da Maria sul treno che la riporterà tar i vicoli bui e infidi di Torre del Greco, servono a farla riposare: … però è bellu accussì a fà pace… è bello…