Oggi più che mai siamo iperstimolati dalle immagini che proliferano tra i servizi di streaming, a pagamento e non. Con un click si può accedere a un catalogo potenzialmente infinito, in cui disorientarsi è frequente: chi non impiega un tempo equivalente alla durata media di un film per navigare tra le proposte delle piattaforme, per poi accorgersi con sconforto che è già giunta l’ora di andare a letto? Le nuove uscite sono indubbiamente un segno positivo e testimoniano la vivacità e la crescita di un mercato, di un settore industriale e culturale che resiste ai contraccolpi del Covid. Però, in alcuni casi, ci accontenteremmo anche di un florilegio più scarno ma ben selezionato di proposte. Il caso di Niente di nuovo sul fronte occidentale firmato da Edward Berger, uno tra i tanti nuovi titoli che ha arricchito il catalogo cinematografico di Netflix negli ultimi mesi, può forse rientrare in questa riflessione. Si tratta del terzo adattamento cinematografico del celebre e omonimo romanzo di Erich Maria Remarque, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1931. In misura diversa e con esiti altalenanti, le precedenti riduzioni cinematografiche (quella di Lewis Mileston nel 1930 e quella di Delbert Mann nel 1979) avevano restituito l’atmosfera del testo (o parte di essa), insieme al senso di alienazione e sconforto dei giovani soldati tedeschi tra le trincee del fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale. Che cosa aggiunge di nuovo o di diverso questa nuova versione?
Essendosi affinate le tecnologie, gli effetti speciali e l’apparato sonoro sono più efficaci nel radiografare gli orrori che subiscono i quattro giovani protagonisti che si arruolano: Paul, Albert, Franz e Ludwig. È un inferno in terra quello a cui si assiste, con effetti sonori sommessi, disturbanti (non scontati peraltro) e carrellate incessanti di corpi maciullati, di giovani prima piegati dalla disciplina dei superiori, dal freddo e dagli stenti, e poi massacrati dal fuoco nemico tra sofferenze atroci. Al confronto, la sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan (Steven Spielberg, 1998) è quasi rassicurante. L’episodio del romanzo che verte intorno al breve ritorno di Paul a casa, in piena guerra, è invece omesso. In più, Berger introduce un filo narrativo parallelo che sposta l’attenzione dal campo di battaglia ai salotti ovattati in cui i vertici tedeschi e francesi trattano per gli accordi di pace.
La matrice antibellicista del film è palpabile e la guerra non viene mai edulcorata, idealizzata o giustificata in nome di un qualche ideale (gloria, patria, popolo, famiglia, futuro). Non fa sconti il film di Berger, che trascina lo spettatore sin dai primi istanti del film in medias res tra il sangue e il fango delle trincee, senza mai indulgere nella retorica dell’eroismo o del coraggio. I quattro giovani protagonisti e gli altri soldati al fronte sono tutti spaventati, annientati, soli e alienati, anti-eroi disillusi rispetto al (non)senso della missione. Un limite del film è forse l’indulgenza sulla galleria degli orrori, che in oltre due ore e trenta di film a volte si fa insistente, quasi insopportabile. Da un lato sconvolge, rattrista e spazza via qualsiasi traccia di umanità e di significato dalla narrazione della Grande Guerra vista dalla prospettiva del fronte tedesco. Dall’altro, però, non è sostenuto da una pari attenzione alla psicologia dei ragazzi, alle loro storie intime. È impossibile non provare empatia per loro, ma forse in modo sempre troppo immediato, che non travalica la superficie e che non permette mai di abbandonarsi al racconto e di conoscerli e capirli davvero. Come quando proviamo pena per le vittime di guerra raccontate dai telegiornali, a cui difficilmente riusciremo a restituire un nome e una storia, una vera e propria soggettività.