Dalla transavanguardia artistica e dal suo mentore Achille Bonito Oliva, la ricerca artistica di Paladino, esponente forse principale di quella corrente artistica, si sviluppa da qualche anno anche attraverso il cinema e dopo il Quijote (2006), che ha trovato la sua ambientazione tra le pale eoliche del Fortore in quella terra di confini tra Campania, Basilicata e Puglia, ora il suo sguardo molteplice si è diretto, ambiziosamente, verso una più totalizzante opera per il cinema che raccoglie suggestioni molteplici, influenze, raccordi, vaneggiamenti musicali, poetici, teatrali e linguistici. L’idea che domina anche quest’opera è l’accumulazione di tensioni culturali, sfuggenti epifanie che danno vita a quella utopia del camminare, che caratterizza, perfino nell’immobilità il tema, la traccia, il senso e la ragione di un’opera come La divina cometa. Un cammino di magi, di nuovo randagi, che attraversano epoche e luoghi. I magi non più agiati studiosi di lune e stelle, quanto invece, disastrati filosofi quotidiani, viandanti sconosciuti di una umanità varia e smarrita, che cerca nelle parole e nell’espressione dell’arte, sulla quale ci si interroga saggiandola, il senso di una eterna sconfitta umana.
Paladino lavora sull’arte e sulla storia, e il cinema, l’immagine diventa il crogiuolo dentro il quale l’esperienza si forma, attraverso la complicata cartografia dei luoghi, gli stessi, più o meno, del suo Don Chisciotte. Forme e paesi e nomi perduti, impressioni e memorie che attingono ai riferimenti culturali del passato – da Alfonso De Liguori eminente teologo e musicista vescovo a Pontormo o Giordano Bruno – in una carrellata di episodi e domande sul tempo e sul presente alla ricerca di quella purezza artistica che tutto sembra potere risolvere. Tutto accade in questa sorta di nuovo viaggio in un nostro e terreno al di là, sotto lo sguardo divertito e anche stupito di un Dante Alighieri onnipresente che vigila sui vivi, così come conobbe i morti. Opera ambiziosa La divina cometa, che ancora una volta si pone in aperta sfida con ogni comprensione immediata, ma che al contempo cala ancora una volta, come spesso accade per l’arte contemporanea, il tempo del passato in quello presente in una mutazione radicale che la fa diventare nuova contemporaneità, attribuendo nuovo senso all’elaborazione e restituendo all’arte quella succedaneità popolare che serve a farla diventare materia plasmabile dei bisogni, così come il pane della coppia con figlio che attraversa gli stadi di questa ricerca in una graduale discesa in un fantomatico al di là.
Il film è un viaggio, un magnifico e sconosciuto, oltre che sorprendente, viaggio fatto senza meta, un on the road per comporre un presepio, come afferma lo stesso Paladino in un’intervista, un presepio in cui, come dice Roberto De Simone, ci può stare pure Maradona. Il cinema, la macchina da presa, in mano a un artista materico diventa strumento necessario per lavorare immaterialmente sul concetto di spazio e la sua distribuzione in funzione della messa in scena («Se guardi nell’obiettivo, nel rettangolo della macchina da presa puoi immaginare che quello sia lo spazio della tela…», scrive nelle note di regia). È proprio su questi spazi angusti e claustrofobici o immensi a perdita d’occhio nella loro inusitata verità, che appaiono come fondali partecipativi dell’azione, che si riversa lo sguardo di Paladino tra gravine e cave dismesse, stanze rese fredde come obitori dai blocchi di ghiaccio che consumano il tempo nel loro gocciolio, e poi ancora i dialetti, le inflessioni in un riferimento a ciò che i luoghi conservano. Non vi è dubbio che la riconoscibilità di una meridionalità insistita è punto di forza dell’opera di Paladino, e in quell’appropriarsi dei suoi luoghi, in quell’incrocio di dialetti quasi indistinguibile, ma perfettamente identificabile, il film si riappropria anche di una parlata quasi perduta, di quei dialetti che dal medioevo in poi, in quell’aria di nuovo medioevo che il film sembra evocare, hanno dato vita anche alla cultura del sud, diventando baricentro di un pensiero filosofico che, tra teologia e senso dell’essere al di fuori di ogni teologia, ha contribuito a fondare l’età. moderna. Paladino ripercorre, trasversalmente, come con le sue opere di scultura e pittura, questi luoghi così carichi di senso – come direbbe Vito Teti – in una ricerca che non è solo artistica, ma anche antropologica e che Paladino sembra raccogliere, così come modellata nel tempo. Gli sono compagni di strada, attori simbolici delle sue sperimentazioni cinematografiche, come Peppe e Toni Servillo, cui si aggiungono Alessandro Haber e Nino D’Angelo, Francesco De Gregori, Sergio Rubini, Mimmo Borrelli e Roberto De Simone, per citare solo i più famosi. Ma fanno da elemento essenziale alla composizione di questa complessa architettura d’artista – tendente e destinata a fare da lievito per un ragionamento che possa arricchire di senso la quotidianità contemporanea – anche i riferimenti musicali e quelli letterari e tra questi si sentono le parole che vanno da Aldo Nove a Michele Emmer e quanto alle musiche da Bach a Brian Eno, ma anche i Fratelli Mancuso e Philip Glass. Tutto per un’opera ai confini tra pittura e poesia, tra scultura e teatro con il cinema come guida virgiliana di questo sgangherato, ma bellissimo viaggio tra le rovine in attesa di un loro nuovo splendore.