Tragedia moderna e malinconia della metropoli in Milano nera, di Gian Rocco e Pino Serpi

È assai strano che alcuni film, a dispetto delle loro qualità, non entrino a fare parte di quella ristretta (ma non tanto) cerchia di film cosiddetti mitici, dei quali, solitamente sono pieni i libri di storia del cinema, ma introvabili in qualsiasi formato e dispositivo. Si tratta di film dimenticati, che sembrano quasi incidenti di percorso, piccole opere sconosciute, film minori ma pieni di una loro interiore ricchezza. Poi, accade che d’improvviso altrettanto incidentalmente, si manifestino tra gli incroci della rete in periodi di bonaccia cinematografica. In questi giorni, di più o meno estesi lockdown, le piattaforme della rete pullulano di film per innumerevoli scelte, tali da provocare un delirio di onnipotenza visivo che spingerebbe ad una costante applicazione per catturare la possibilità di una visione unica e sconosciuta. Capita così che la Cineteca di Milano, istituzione storica del mondo della conservazione filmica, offra ai frequentatori del proprio sito web la visione di un bel numero di film, alcuni dei quali fanno parte della storia del cinema muto o meno e spesso autentici pezzi rari di una storia complessiva del nostro cinema, trasformando il percorso della visione in una scrittura per immagini della storia della settima arte. L’occasione offre molte opportunità, con la possibilità di colmare lacune anche considerevoli. Effetti della pandemia e della rete solidaristica che si attiva anche attraverso queste forme che si traducono in conoscenza e quindi sedimento culturale. Tra i titoli che possono rintracciarsi navigando sul sito dell’ente milanese, quello di un lungometraggio assolutamente dimenticato forse anche dai più disponibili libri di storia del cinema, sicuramente sconosciuto ai più giovani, c’è Milano nera del 1960. Gian Rocco e Pino Serpi, i due registi, dalla ridotta filmografia ma al loro fianco c’era per la scrittura della sceneggiatura anche Pier Paolo Pasolini. Gian Rocco e Pino Serpi l’anno precedente aveva girato Carosello spagnolo, un documentario che prendendo a spunto il sogno di una bambina, diventa un viaggio tra le tradizioni e le attrazioni monumentali della Spagna. Nell’anno successivo, ancora insieme a Serpi esce invece Milano nera. Vari anni dopo nel 1967, da solo Rocco avrebbe firmato la regia di Giarrettiera colt un classico bmovie ambientato durante la guerra civile messicana con protagonista una donna pistolero. Ma è Milano nera a restare il loro risultato migliore, anche se oggi è un film completamente dimenticato fino a questo eccellente ripescaggio operato dell’Ente milanese. Narrano le cronache più informate e minimamente reperibili in rete, che venne proiettato solo per un paio di giorni nella città lombarda per poi scomparire dalla circolazione e ricomparire oggi in rete. Strano prodotto questo film che nulla ha a che vedere, quanto a trasposizione, con le storie di Scerbanenco i cui romanzi milanesi sono successivi, ma nel quale, in fondo, si respira la stessa aria che si ritrova in quei racconti, assimilandosi le atmosfere a quelle cupe e infelici immaginate dallo scrittore.

 

 

La storia è quella di sei balordi dai nomi che richiamano gli ambienti della mala milanese (alla Gaber e Vanoni per intenderci) il Gimkana, il Teppa, il Rospo, il Contessa, Mosé e Toni. Non sono malviventi esperti e laureati, ma vorrebbero esserlo, sono sei poveracci senza arte, né parte. Durante la notte di Capodanno, incapaci di festeggiarla secondo le regole, decidono di trascorrerla facendo un colpo che potrebbe sistemare le loro vite per un po’. Compiuto il furto in una chiesa si procurano un’automobile e si dedicano alle scorrerie in una città ancora silenziosa e notturna, tra coppie clandestine e omosessuali, con donne disposte a provare il brivido della “malavita”. Tra di loro c’è anche Cino, il fratello adolescente di Toni, e al mattino la notte brava si chiuderà nella desolazione tragica dello stadio di San Siro. Il bianco e nero di Milano nera accentua i toni di quella profonda solitudine che possiede i sei protagonisti, ma più complessivamente una solitudine che aleggia sul film, fotografando una Milano più che malinconica quasi dipinta di nero. Vi è un po’ riconoscibile l’anima di Pasolini in questa storia maledetta nella scura metropoli, vi è qualcosa in questo il film che naviga controcorrente. In quegli anni il boom economico offriva agli italiani, e al nord più che al meridione, un benessere inatteso e soprattutto mai più ripetuto. Eppure Milano nera sembra rassegnarsi ad un’altra condizione e tutto sembra essere assorbito, compreso il benessere diffuso e la felicità che ne segue, da una sottile angoscia che la notte sa coprire e che si manifesterà in tutta la sua chiarezza nella desolazione del mattino dopo. Ma i sei balordi, con quei nomignoli da fumetto, protagonisti di una malavita di periferia un po’ sfigata, sono emarginati anche da ogni ambizione di ricchezza, la loro stanza-rifugio è squallida, disadorna, utile al loro poltrire preda di una noia che misura l’incolmabile distanza dalle cose del mondo, quella stessa noia moraviana che interrompe ogni comunicazione con il mondo. Milano nera diventa un’indagine, un piccolo e fugace ritratto malinconico della marginalità giovanile della metropoli negli anni della felicità collettiva, ma anche uno sguardo su una devianza che pare connaturata alla vita che in quelle condizioni si faceva caotica e febbrile. Milano nera è anche una idea di gioventù che si affacciava quale protagonista del cinema e ad accompagnare questa entrata in scena c’erano le musiche di Nico Fidenco e i primi sentori del rock and roll. I sei protagonisti fanno del male un po’ alla buona, solo per trascorrere il tempo, la loro cattiveria è quasi fanciullesca. Forse, in questa definizione a bassa risoluzione di una malavita giovanile, quasi da ribelli senza causa, c’è la mano di Pasolini e del suo modo di guardare i giovani dell’epoca. In fondo si tratta di un gruppo di emarginati, lontani da ogni occasione di profitto, perfino di quello al di fuori della legge, preda di una connaturata indolenza. Tutto questo li fa diventare i veri poveri in una città che si arricchisce. Il loro vagare nella notte di Capodanno, una notte così necessariamente festaiola, diventa sotto gli occhi della macchina da presa doloroso modo di stare al mondo e la cupezza dei loro animi che fingono un’allegria di naufragi, per dirla con il poeta, è accentuata dai chiaroscuri netti di una fotografia dal bianco e nero dai contrasti saturi, che ricolora di tenebra le periferie milanesi. Gli echi delle vite violente pasoliniane si fanno sentire, ma Milano non è la Roma di Pasolini e nella distanza si allenta ogni omologazione tra le due metropoli. Il film si avvia così ad assumere un indistinto profilo da tragedia moderna che racconta il male oscuro che poco più tardi sarebbe diventato topos letterario. Gian Rocco e Pino Serpi sembra quasi abbiano anticipato il senso delle atmosfere del futuro Scerbanenco, ritrovando nelle immagini del film quella stessa malattia esistenziale camuffata da ostentata spavalderia spaccona che i protagonisti simulano con una certa enfasi. Milano nera, che di nero ha solo il colore della notte di San Silvestro, sembra confinare anche con certe atmosfere esistenzialiste, ancora lontane da ogni rivolta, fondate su un pensiero che giustificava la moderna precarietà del vivere in quell’incolmabile vuoto dei valori che sembrava resistere ad ogni critica. I due registi di questo piccolo film dimenticato, hanno saputo lavorare su questi canovacci così sotterranei, ma vitali per dare linfa al film, con una naturalezza quasi naif. Una naturalezza se si vuole non raffinata, ma efficace come la recitazione atona e priva di inflessione psicologica chiesta al personaggio femminile che accompagnerà i sei amici nelle loro peregrinazioni fino al mattino. Un espediente che contribuisce ad accentuare il colore tragico che sottotraccia lo aveva già segnato. Dopo la notte, il mattino livido si apre sui grigi della fumosa nebbia milanese, dentro un San Siro vuoto e disanimante, apice di una malinconia che si manifesta quasi luminosa in quell’inizio d’anno mesto e inquieto. Sequenza finale bellissima e carica di un dramma annunciato, sincopata da un montaggio che sa essere frenetico e drammatico, quasi ansimante come la corsa di Cino, con una fotografia che sa esaltare le atmosfere della periferia tinte di grigio e quasi indefinite dentro al velo della nebbia. I luoghi e le cose assumono le forme minacciose di un male incombente. Un reperto cittadino d’annata questa Milano nera, una incursione nel cuore tenebroso di quella città. Un film che riporta alla mente La rimpatriata (1963) di Damiano Damiani, che con altri intenti, ma con la stessa dedizione, guarda Milano che intanto in quei pochi anni che separano i due film, si era già trasformata.

 

Il film è visibile, dopo la registrazione a questo link

https://www.cinetecamilano.it/film/1888