La sincronia delle assonanze naturali in La canzone della Terra di Margreth Olin

L’intento di Margreth Olin, regista norvegese, è quello di omaggiare con il suo film che arricchisce la già discretamente ricca filmografia, al contempo il suo Paese e i suoi genitori. È in questo senso che il film diventa una ossessiva e piacevole immersione nella memoria del passato delle famiglie d’origine alla ricerca di piccoli o grandi episodi che hanno segnato quelle esistenze, ma lo scandaglio di quelle radici prosegue tra i magnifici e incredibile scenari dell’Oldenvalley all’ovest della Norvegia, i luoghi in cui Margreth Olin è nata e dove ancora vivono i suoi genitori Jørgen e Magnhild. Il film, in Concorso al Festival del Cinema della Montagna di Trento 2023, è un rincorrersi di immagini che valorizzano ancora di più, ove ce ne fosse bisogno, la bellezza delle montagne e dei ghiacciai, dei laghi e delle valli aprendo, con le riprese con i droni, immense vedute di respiro infinito sulle cime e sulla straordinaria e imponente visione delle montagne. È su questi sentieri, con un confronto pacificato con il presente e con il passato, con la natura e con le sue tragedie che l’ottantaquattrenne padre della regista ripensa al tempo andato, alla sua famiglia d’origine e a quella della moglie, all’abete rosso piantato da suo padre agli inizi del secolo scorso e che ancora svetta su un pianoro, diventando ogni anno l’albero di Natale della valle.

 

 
La canzone della Terra sovrappone le due suggestioni segnando con la sua macchina da presa le rughe del tempo del padre e quelle della sua terra, il battito del cuore umano con i suoi rumori vitali a quello della vita della natura, che sembra pulsare allo stesso modo in una ideale coincidenza dell’effetto del tempo e delle sue influenze sull’esistenza nel più ristretto ambito di un corpo umano o nel più ampio sguardo che offre il mondo, quello che la macchina da presa può catturare. Le immagini colgono attimi di felicità dell’anziana coppia, nonostante la consapevolezza dell’appressarsi di un addio che sembra stemperato dalla totale immersione dentro i ritmi naturali, laddove anche la propria scomparsa diventa effetto del battere di questi ritmi. Nel mezzo, in una scansione temporale quadripartita secondo le stagioni, l’incedere dei fenomeni naturali, quell’ascolto dei suoi, che ci ricorda il lavoro musicale del compianto Ryuichi Sakamoto sempre alla ricerca della purezza del suono attraverso l’ascolto della natura, ma ci fa venire in mente lo sguardo affascinante di Franco Piavoli che con il suo lirismo asciutto ha costruito il suo cinema dentro una dimensione al tempo stesso arcaica e sempre nuova. Anche La canzone della Terra, con i suoi rischi di estetizzazione scongiurati da una finalità precisa, sa farsi cinema dell’ascolto, benché più indulgente rispetto al citato Piavoli che non si è mai fatto ingannare dalla pura bellezza senza decifrarne l’intimo rapporto anche violento a volte con l’uomo. Ma nonostante tutto Margreth Olin porta a compimento il suo lavoro, il suo film diventa compiuto in quell’attenzione doppia dalla quale era partita, sebbene un po’ perduta lungo il cammino del film ed è su queste fondamentali idee volte a una consonanza tra uomo e natura – laddove Piavoli cercava invece le dissonanze – che il film ha fatto proseguire la collaborazione tra la regista e Wim Wenders, già cominciata in precedenza con Cattedrali della cultura, il progetto cinematografico ideato dal regista tedesco su sei edifici che rivestono un particolare valore simbolico e che tra i sei autori scelti vide anche il nome di Margreth Olin. Qui Wenders è in veste di produttore esecutivo e al suo nome si aggiunge quello di un’altra norvegese come Liv Ullman che molto ha significato per il cinema di quel nord Europa dall’aura così mistica.

 

 
Anche La canzone della Terra diventa cinema mistico nel quale la bellezza si contempla in ogni sua parte senza apparenti contraddizioni, senza scosse in un meccanismo perfetto che mette d’accordo uomini e natura in una perfetta sincronia che forse non esiste, così come non esiste la perfezione che Olin ci mostra, ma il cinema, sicuramente, serve anche a questo, a mostrarci ciò che in fondo non possiamo vivere.