Trieste Film Festival – Nel buio dell’animo umano: In the Dusk di Sharunas Bartas

L’occupazione della Lituania da parte dell’Unione Sovietica, il trauma delle deportazioni nei campi di lavoro in Siberia, la totale perdita del controllo sul proprio futuro, proprio nel momento in cui la Seconda guerra mondiale si sta concludendo, rappresentano per il cinema lituano un nodo ancora non sciolto e il punto verso cui convergono i racconti di un cinema tanto intenso quanto dolente. Nell’opera di Sharunas Bartas tutto questo arriva in forma esplicita nel suo ultimo film In the Dusk (in concorso al Trieste Film Festival), dopo aver vagato nel buio dell’animo umano, tra interrogativi e sguardi attoniti, i colori sbiaditi della natura e un vociare indistinto ma di estrema profondità. La seconda fase della resistenza armata antisovietica spinge i gruppi partigiani, ormai ridotti di numero, a nascondersi nella foresta, lontani dai centri abitati e isolati da tutto e tutti. Gli anni sono quelli tra il 1946 e il 1949, in un paese ormai indebolito dalla repressione economica, politica e sociale. Gli invasori impongono con la forza la collettivizzazione delle terre, facendo a pezzi ogni tipo di quotidianità, invadendo i piccoli centri e spargendo ovunque paura e sospetto. Il punto di vista privilegiato di Bartas è lo sguardo del giovane Unte, figlio adottivo dell’anziano proprietario terriero Pilauga e di sua moglie malata. Dalla fattoria è facile per il ragazzo osservare il microcosmo che lo circonda, il gelo dell’inverno e la vita che si è interrotta lasciando al suo posto una fredda e diffusa desolazione. Si procede per gradi e avanzamenti successivi: l’inizio è quasi un dramma da camera, tutto concentrato all’interno della fattoria. Le dinamiche famigliari si intrecciano all’attività dei partigiani accampati nella foresta. Per Unte spingersi nella boscaglia è una sfida e un gesto di conoscenza che lo porterà a comprendere questa lotta in tutte le sue sfumature, a comprendere l’ambiguità delle persone e delle loro posizioni. Non ci sono eroi in questo film ma uomini deboli, talvolta meschini, crudeli o disperati. “Ognuno ha la sua verità, ma penso che ce ne sia solo una”, dice Pilauga al figlio, che ha già conosciuto la menzogna e l’austerità tra le mura di casa e sta per scoprire un mondo ormai sopraffatto e diviso, in lotta e, tuttavia, non diverso.

 

 

Bartas (che produce e sceneggia con l’attrice Ausra Giedraityte) riesce a rendere dolorosamente intima la ricostruzione storica di un momento cruciale del suo paese e lo fa attraverso i suoi lunghi primi piani, i dialoghi illuminati dalla luce delle candele o di lampade a gas, le rughe, i segni, i gesti, il volo degli uccelli. Non sembra cambiato nulla da Koridorius, ma al tempo stesso ogni inquadratura ha ancora più profondità, più peso, più intensità. Si percepisce un sentimento del tempo che non concede distrazioni, perché un istante dopo l’altro si costruisce il microcosmo magico e ricco, popolato di suoni, rumori, gesti, oggetti, cambiamenti impercettibili, e soprattutto, sguardi che rimbalzano tra i luoghi, le inquadrature, gli spazi. C’è sempre qualcuno che guarda ed è guardato, per questo il silenzio assume un significato così profondo: è la sospensione, l’attesa, l’idea di un inizio che si ripete e si concentra sul passaggio di un’ombra o l’intromissione di una voce nascosta. Tutto si evolve lentamente, le morti che si ripetono, lo smarrimento, la consapevolezza. Eppure nulla sembra davvero compiersi, intrappolato nel fango del bosco e della Storia.

 

 

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