Trieste35 – Home sweet home, di Annika Mayer: ripulire le immagini da ogni falsa rappresentazione

Esiste più di un motivo di interesse per parlare di Home sweet home della tedesca Annika Mayer (in concorso al Trieste Film Festival, nella sezione Documentari), molto attiva nella produzione e nel montaggio con una buona esperienza alle spalle. Home sweet home segna il suo debutto alla regia. C’è uno speciale carico di emozione per l’autrice dentro questo suo esordio e proprio perché si tratta di un debutto, con il trattamento di una materia particolarmente personale, non solo costituisce una dichiarazione di intenti, ma anche un bell’imprinting rispetto al suo cammino futuro. Attraverso una notevole quantità di filmini familiari che riguardano la vita dei suoi nonni con i due figli, uno dei quali è il padre della stessa Mayer, e una lunga intervista alla nonna ormai molto anziana, che rivediamo giovane nelle immagini filmate degli anni ’50, Annika Mayer ricostruisce un profilo della sua famiglia d’origine, ma ricostruisce purtroppo il clima di violenza domestica che si è sviluppata dentro le mura familiari e di cui nulla o quasi traspariva nelle immagini ufficiali dei filmini d’epoca che vediamo. In questa lunga intervista l’anziana donna racconta della violenza subita dal marito, un piccolo imprenditore che volle sposarla giovanissima e assicurava a lei e ai due figli un’esistenza agiata. Ma nel privato i suoi improvvisi e ingiustificati cambiamenti d’umore si trasformavano in violenza gratuita e umiliante verso la moglie che, dopo anni di silenzio e la travagliata separazione, a distanza di tempo appare ancora segnata psicologicamente da questa dolorosa e incancellabile esperienza.

 

 
Il film vive di questa contrapposizione tra passato e presente, tra invisibilità della violenza e sua esibizione verbale, tra ricostruzione del filo del racconto attraverso una tanto sapiente, quanto efficace manipolazione dei materiali d’archivio, attraverso il ralenti o il fermo immagine che funzionano come momento speculativo e indagatore della memoria, cristallizzazione dell’attimo per cogliere l’ombra violenta sul viso dell’uomo o il sorriso improvviso della donna che celava paura ed infelicità. Una ricerca di senso e un lavoro di indagine che si completa e si fa attuale, trascinando quel doloroso pezzo di vita fatto di insopportabile violenza in quella contemporaneità non sempre così distante da quel tempo, grazie alle parole dell’anziana donna che con la semplicità dei primi piani e una luce che l’avvolge in un set ridotto all’essenziale, rievoca quei giorni e quegli anni con l’emozione che la nipote regista sa cogliere con l’attento lavoro di scandaglio che la sua macchina da presa con affetto e diligenza mette in opera.

 

 
Home sweet home è un film in cui la visibilità della vita ufficiale di una famiglia si contrappone a quella invisibilità che l’immagine non può cogliere, ma che fa immaginare e ancora una volta si è davanti ad un film in cui il cinema assolve a quella funzione di sostituzione della storia, qui familiare e privata, surrogandosi pienamente e con l’efficacia di quella manipolazione critica degli archivi all’assenza di immagini, a quell’immagine mancante che diventa il vero fine del film in una esorcizzazione del passato, ma anche in una sua più che dignitosa riscrittura. Home sweet home è infatti anche omaggio ad una verità celata, restituzione di senso rispetto alla propria stessa genealogia, elaborazione di un doloroso silenzio durato anni. Annika Mayer compie un doppio lavoro: quello che riguarda il cinema in una ricerca attenta delle immagini alle quali sa conferire valore aggiunto in quella esaltazione di senso che esse stesse permettono come avviene nel campo visivo di un microscopio; quello sul proprio passato in una rielaborazione delle vicende e in nel loro definitivo affidamento alla storia.Ma soprattutto il film di Mayer ci mette in guardia, ancora una volta, sul vero valore delle immagini, su quella verità assoluta che pretendono di mostrare e che invece celano dietro il velo di quella invisibile falsità non percepibile ad occhio nudo. Forse è proprio questo il tema invisibile del film quella di cancellare, ripulire l’immagine da ogni falsa rappresentazione. E ci viene in mente Godard.