Una donna chiamata Maixabel di Iciar Bollain: un processo privato di verità e riconciliazione

Era il 2011 quando l’Eta (acronimo di Euskadi Ta Askatasuna) annunciò di rinunciare alla lotta armata che dal 1958, in piena dittatura franchista, aveva messo a ferro e a fuoco la Spagna in una lotta allo Stato che causò un migliaio di vittime. In Una donna chiamata Maixabel siamo già a metà film, quando tre uomini con il volto coperto da un cappuccio bianco appaiono in televisione per comunicare questa storica decisione. Prima di questo momento abbiamo seguito la vicenda parallela di Maixabel Losa, moglie dell’ex governatore civile di Guipuzkoa, e di Ibon Etxezarreta, uno dei tre attentatori che nel 2000 uccisero Juan Maria Jauregui, appunto. Lei che tenta di portare avanti la sua vita testimoniando in nome delle vittime degli attentati (non solo dell’Eta), lui che, dalla prigione (è stato condannato nel 2004 a 39 anni di carcere), è tormentato dal senso di colpa e dal rimorso. Due vite intrappolate in un passato impossibile da superare, che si dibattono tra la necessità di non dimenticare e quella, invece, di non ricordare. Perché se le giornate di Maixabel trascorrono tra famiglia e causa politica e civile, quelle di Ibon si caratterizzano per una sopita inquietudine, la volontà di trattenere tutte le emozioni legate alla sua militanza a Tolosa. La regista Iciar Bollain, da sempre attenta a mettere in scena storie di donne a tutto tondo, crea con precisione i termini di una contrapposizione intensa, che interessa sia il piano del racconto che quello del discorso.

 

 

Tolti tutti gli orpelli narrativi, infatti, “racconta” a partire dai semplici gesti dei suoi personaggi. Una corsa notturna, una passeggiata solitaria in riva al mare, la routine casalinga. Il “fare” come una sorta di rituale silenzioso per tenere lontani i fantasmi, fino a quando ci si rende conto che solo la parola può riuscire a dissolverli. E così entrambi si fanno coinvolgere in un progetto di verità e riappacificazione e Maixabel incontra Ibon proprio per sollevare questioni, rispondere, discutere e ascoltare, rivivere quei momenti di terrore e accendere una luce e aprire un varco nella claustrofobia delle loro vite. Perché quando Ibon, in permesso, ripercorre in auto i luoghi dell’attentato, è al tempo stesso spaesato e inseguito dai ricordi, con l’eco degli spari che non potrà dimenticare e il senso di impotenza per gli errori commessi. Non senza un po’ di retorica e una scelta cromatica che opacizza invece di chiarire, Bollain si cala completamente nei panni dei suoi personaggi e ne trae un film corretto, emotivamente equilibrato, forse un po’ schematico, in cui, però, l’essenzialità ha il merito di concentrare emozioni e pensieri in una visione problematica e mai manichea di una pagina più che mai delicata della storia spagnola. I dialoghi, che rappresentano il cuore del film, sono segno politico, la volontà di andare oltre per comprendere e la necessità di vedere il proprio esatto controcampo.  Perché se Juan Maria era stato militane dell’Eta in gioventù, ma ne era uscito per i metodi violenti dell’organizzazione, Ibon non ha saputo riconoscere in tempo i suoi stessi pensieri, scoprendosi “sollevato” nel momento del suo arresto. E poco importa se il finale è fin troppo consolatorio e ci mostra, dall’alto, una possibile riconciliazione che non potrà mai compiersi fino in fondo.