Una mamma contro G. W. Bush di Andreas Dresen: l’odissea di Rabiye

 

Born in bremen / played guitar / a young apprentice

building ships / loved and married / heard the call

is attaining wisdom/ a pursuit of fools

journeyed to Pakistan/ to breathe the Koran

taken in custody/ no reason why

then a prison camp/ as an enemy/ Combatant”

(Patti Smith, Without chains, 2007)

Di ritorno a casa, alla guida (grintosa) della sua Mercedes, Rabiye Kurnaz comprende che qualcosa di insolito sta accadendo di fronte alla sua abitazione: un folto gruppo di reporter è impaziente di intervistarla convinti che lei sia la madre di un talebano. Inizialmente frastornata dall’imprevedibile presenza, la donna accetta di rispondere alle domande incalzanti dei giornalisti non prima però di aver rimproverato uno di essi perché finito coi piedi sopra una delle sue aiuole, calpestando i suoi fiori. Una gag, un numero da stand-up comedy, un flash che illumina sullo stato delle cose, un elemento in grado di restituire l’immagine di una donna determinata e dolce: in bilico tra protagonismo e responsabilità, la vita di ciascuno può essere la differenza, il cambiamento. È uno dei tanti momenti ironici e teneri costruiti intorno alla bravura dell’attrice Meltem Kaptan (comica, scrittrice, conduttrice) e su cui si fonda l’undicesimo lungometraggio di Andreas Dresen, regista tedesco abituato a coniugare nel suo cinema effetti contrastanti capaci di fare emergere un profondo vissuto che rivela il telaio di una società tedesca rappresentata in divenire, al vaglio delle trasformazioni culturali, tenendo lontani schemi e cliché (si rivedano Gundermann e As We Were Dreaming ma anche i più celebri e in un certo senso commerciali Catastrofi d’amore, Orso d’argento a Berlino nel 2001, e Settimo cielo) pur rispettandone le radici e l’identità.

 

 

Una mamma contro G. W. Bush racconta la vicenda di Rabiye Kurnaz, tedesca di Brema, origine turca, moglie, mamma di tre figli, alle prese con l’odissea di Murat, il figlio maggiore, accusato di terrorismo e imprigionato a Guantanamo. Siamo nel 2001, a poche settimane dagli attentati dell’11 settembre: la signora Kurnaz inizia una lotta impari sostenuta dalla sua contagiosa umanità. L’unico intenzionato ad aiutarla e a crederle è l’avvocato per i diritti umani Bernhard Docke, convinto che la sua storia possa aiutare a ricomporre il quadro della Storia di tutti. Il suo caso arriverà fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti e dopo un’attesa lunga anni, finalmente preso in considerazione. Dresen realizza un tipico justice movie rielaborando l’archetipo biblico di Davide contro Golia, terreno comune a tanti titoli analoghi (da Erin Brockovich a Changeling) dove l’eroina si batte per riconciliarsi con la verità o gli affetti, compiendo però un complesso processo di ibridazione che fonde dramma personale, tragedia collettiva, critica politico-sociale e commedia. Non solo. Nonostante non siano mancate rappresentazioni efficaci dell’11 settembre o restituzioni compiute sul senso di smarrimento conseguente che ha travolto l’occidente dopo quella che ancora oggi nell’immaginario collettivo è considerata un punto di non ritorno, una crisi senza (as)soluzione, l’opera di Dresen, scritta dalla sceneggiatrice Laila Stieler premiata a Berlino, sente la necessità di ribadire l’urgenza di ripensare alle piccole storie di un paese ferito e sconvolto, evidentemente non del tutto consapevole, ieri come oggi, con la convinzione di credere fortemente nel cinema, veicolo di immagini che resistono al tempo e che sprigionano sentimenti intrecciati alla Storia.

 

 

Oltre ai rischi assunti legati alla dose di umorismo turco-tedesco equivocabile se non contestualizzato, alla densità narrativa che rischia di appiattire il ritmo del film, alla sovraesposizione del digitale che a qualcuno potrebbe infastidire perché ricorda lo stile povero da fiction di bassa fattura (ma è qui che Dresen ci vuole portare), a sorprendere è proprio la forza travolgente delle immagini che non svelano semplicemente un sostanziale labirinto temporale (lo spettatore è provocato dalle didascalie a mettere in dubbio che si tratti di un docu-fiction) ma pure offrono lo spaccato di una vita spesa guardando in un’unica direzione: la salvezza di un figlio. Così restano indelebili le inquadrature dedicate alla signora Kurnaz che scorrazza per le vie di Brema in preda a una strana euforia, mentre cucina allegra, quando gioca e canta con i figli, ma pure quelle dell’amicizia con l’opposto (per fisico, estrazione culturale) ma analogo (per affetti e valori condivisi) avvocato Stocke. Nella buona riuscita di questa relazione, proprio da un punto di vista di resa dell’immagine, Dresen sembra investire gran parte delle proprie ambizioni. Ma è un’amicizia talmente genuina che quasi ci sfugge quella carezza compassionevole che l’avvocato dona alla signora nel momento più duro dell’intera vicenda, a ricordare che è nei piccoli gesti di cura che la realtà può essere, magari non cambiata, ma accolta in modo differente.