Une fleur à la bouche di Éric Baudelaire: alla Berlinale72 un altro Pirandello

Si direbbe l’immagine inversa dell’uomo della folla, seguito circa ottant’anni prima da Poe per le strade della città: L’uomo dal fiore in bocca pirandelliano è quello che sta fermo ogni notte al bancone del bar, anche lui teme la solitudine e quindi la morte, ma la esorcizza in un eloquio statico, che si tiene a distanza dalla vivacità assordante della vita cittadina e preferisce il silenzio che non lascia scampo al pensiero e lo traduce nel dubbio eterno che si fa certezza. Modernità, o forse veggenza, di Pirandello, il quale nell’Italia del 1922 fermava il tempo dell’Uomo nelle stimmate della morte che marchiano la sua bocca. Un Uomo che non cessa di dire, per non cessare di essere e che si esalta persino nel suono del nome che ha assunto per lui la morte: “epitelioma”… Magnifico Pirandello, che, nella stessa Berlinale 72 di Leonora addio di Paolo Taviani, si offre anche al francese Éric Baudelaire per Une fleur à la bouche (visto nel Forum): una trasposizione attualizzata dell’atto unico pirandelliano, elaborata però nel doppio corpo di un’opera che fa precedere la drammaturgia del dire dalla prassi del fare. Lo scarto è logico, perché misura la distanza puramente decadentista dell’uomo condannato alla speculazione, all’inane riflessione contrapposta alla materialità operosa del vivere. E allora si capisce perché Éric Baudelaire fa precedere la sostanza del dramma, che si gioca davanti al bancone del bar della stazione, da una lunga introduzione costruita come un documentario d’osservazione, con implacabili piani sequenza a seguire la gestualità semplice e meccanica degli operai del mercato floreale di Aalsmeer, in Olanda.

 

 

In quell’operato, Baudelaire trova la ratio di un vivere che non appartiene più al tempo del suo protagonista, sospeso sull’attesa della morte annunciata dal verdetto dei medici: lo scarto si sente nella differenza tra la linea geometrica imposta all’osservazione del lavoro degli operai e l’approccio più circolare, avvolgente, sinuoso con cui si affianca alla posa in opera piuttosto fedele ma pur sempre adattata del testo pirandelliano. L’operazione fluidifica alcuni passaggi, ma è sostanzialmente fedele: l’avventore (Dali Benssalah) appare sulla porta del bar occupato da quei pacchetti che incarnano sia la sua proiezione verso il ritorno a casa, sia l’impedimento opposto alla sua realizzazione… Ed è un impedimento tutto moderno, scaturito dalla frenesia compulsiva in cui si smarriva l’Uomo della folla poeiano… Dovrà prendersi il tempo di una pausa prima che un altro treno lo conduca a destinazione. Ma, essendo quello un tempo notturno, non può che essere declinato nella sfera del non esserci, di cui è portatore l’Uomo dal fiore in bocca (Oxmo Puccino): la morte è lì in attesa e subentra lentamente nell’eloquio quieto e garbato, ma sempre più veemente, dell’uomo che quella notte, come tutte le notti precedenti, è seduto al banco del bar, in attesa che la morte se lo porti via. Baudelaire oppone insomma la linea del bancone del bar alla linea di produzione dei mercati floreali, in un gioco che incide la solitudine dell’operaio nella solitudine dell’uomo moderno, condannato a reiterare la propria intima separazione da se stesso. Il silenzio che invade il tempo diurno, quello produttivo, rappresentato nei primo 20 minuti di film, si immerge lentamente nella penombra della notte, in cui la solitudine del non esserci in quel mondo deserto si traduce nell’incontro forzoso ma profondo tra sconosciuti. Pirandello offre insomma la trama di un tessuto con cui Éric Baudelaire avviluppa il dialogo tra il silenzio del tempo produttivo e il silenzio del tempo umano: ché l’avventore alla fine resterà senza parole vere dinnanzi alla vere parole scaturite da quella bocca ornata dal mortale fiore chiamato epitelioma.