SULLA MIA PELLE

Sulla mia pelle: il calvario sul corpo di Stefano

L’intento, dichiarato, è quello di separare il destino di una persona dall’immagine che tragicamente lo rappresenta agli occhi del mondo: da una parte c’è Stefano Cucchi, con la sua verità quotidiana, gli errori passati e presenti, ma anche il tentativo deciso di cambiare e migliorare; dall’altra c’è quella tremenda foto scattata sul tavolo dell’obitorio, diffusa dalla sorella Ilaria nel momento in cui ha deciso di chiedere pubblicamente le ragioni della sua morte. Ed è proprio sugli infiniti gradi di separazione che stanno tra queste due realtà che Alessio Cremonini ha costruito Sulla mia pelle (presentato nel concorso Orizzonti di Venezia 75): più che il classico film inchiesta, un’opera di restauro dell’immagine deturpata di quel volto emaciato passato alle cronache. Non si tratta di santificare quello che del resto oggettivamente è già un martire civile della nostra Italia stigmatizzata (anche per questo caso) da Amnesty International, quanto di narrare la scena umana di ordinario disinteresse in cui la morte di Stefano Cucchi è avvenuta.

La scansione diaristica degli eventi segue un ciclo circolare, inizia dalla fine e alla fine ritorna perché quello poi è il drammatico redde rationem di una tragedia umana scritta proprio sulle responsabilità di un po’ tutte le 140 persone tra carabinieri, giudici, agenti penitenziari medici e paramedici, che, come da ricostruzione giudiziaria, sono entrate in contatto con Stefano nell’arco dei sette giorni di detenzione. Un vero e proprio calvario, scandito per poste giornaliere, lungo i luoghi di una giustizia spesso kafkiana, più spesso ancora pilatesca. Cremonini si affida fortemente alla performance fisica di Alessandro Borghi, smunto nel deperimento cristologico di un corpo sofferente. La violenza non si mostra, resta l’osceno dissenso civile al quale non soggiacere almeno nell’atto della rappresentazione. E questa è la scelta più bella e coraggiosa del film. Assieme a quella di non tagliare le parti in grigio dell’esistenza non semplice di Stefano, gli spigoli del suo carattere, la sua stessa sottomissione al timore di infrangere un codice comportamentale basato sulla paura del potere e sul rifiuto degli strumenti del sistema, che gli fa rigettare gli aiuti che qualcuno gli offre, la possibilità di denunciare e di dire. Che poi è speculare alla bonaria sottomissione dei genitori di Cucchi, il padre stanco e spiazzato interpretato da Max Tortora, la madre dolente e la stessa sorella Ilaria, interpretata da Jasmine Trinca, che tiene inizialmente le distanze dal dramma di Stefano, da cui già troppe volte è stata delusa. Cremonini gestisce questi materiali basandosi più sull’idea complessiva del film, sul rigore della sua posizione di partenza, che su una riflessione di messa in scena. Il film manca di intuito visivo, confidando troppo nella presenza forte di Borghi. Un po’ didascalico in certe sottolineature dei passaggi, un po’ esile nella costruzione empatica dei caratteri, forse un po’ prigioniero del bisogno di apparire (oltre che essere) equilibrato e lucido. Che un film come questo manchi di commozione è certamente un fattore da valutare positivamente. Che però non si senta mai un moto interiore che vada al di là della pietà “iconografica” generata dalla prestazione di Borghi e dell’indignazione per le indifferenze e distrazioni diffuse, ecco questo lascia un po’ delusi.