I percorsi affettivi del road-movie: Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores

Un altro ragazzo speciale, dopo quello invisibile: solo che stavolta dai cinecomic si passa alla realtà, o meglio alla commedia on the road che Gabriele Salvatores aveva già percorso in lungo e in largo a inizio carriera, prima di intraprendere la sua personale via al blockbuster tricolore. In effetti, il regista di Io non ho paura lo preferiamo alle prese con soggetti più “piccoli”, dove riesce, come in questo caso, a mostrare una dolcezza non comune nell’interazione di caratteri spesso al limite. Anche e soprattutto senza l’ausilio degli effetti speciali. Il ragazzo speciale è Vincent, sedicenne autistico che ha preso il nome dall’omonima canzone di Don McLean e vive con la madre Elena e il patrigno Mario. Un giorno, però, nella vita dei tre ricompare Willi, il vero e spiantato padre di quel ragazzo che non aveva mai conosciuto. Così, quando riparte per il suo tour da cantante (è soprannominato il “Modugno della Dalmazia”), Willi si ritrova Vincent nascosto nel pickup, per un viaggio tutto da percorrere insieme. Partendo dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura, di Fulvio Ervas, a sua volta tratto da una storia vera, Salvatores mette in scena due caratteri ugualmente borderline e per questo capaci di scardinare immediatamente le classiche dinamiche filiali. Niente pietismi né recriminazioni: Vincent e Willi costruiscono insieme un terreno comune e privo di pregiudizi dove, nonostante le avversità, riescono a comprendersi e a sostenersi a vicenda, motivati da un affetto che si rivela spontaneo e sincero.

In questo modo, mentre il viaggio di due personaggi che non hanno un sostrato comune si rivela capace di dare forma a un legame solido, è il rapporto fra Elena e Mario a risentirne e a mostrare tutto il non detto di una relazione apparentemente equilibrata. La chiave di volta è infatti data dalla capacità di ogni personaggio di uscire o meno dal proprio personale autismo: Elena è prigioniera dei rancori passati, laddove Mario è ingabbiato nel sistema di riferimenti letterari della sua vita da editore e intellettuale. Il film, non a caso, corteggia l’idea del confine come limite da superare, scavalcare, al pari di un migrante in certa di libertà (riferimento arguto e attuale), quali sono in effetti Willi e Vincent nel loro tour fra i Balcani. Il “folle amore” del titolo diventa così una libera verità dei sentimenti, contrapposta ai possibili equilibri forniti dalla ragione. Anche per questo, il film è abile nell’aprire nuove traiettorie di senso giocando con le risonanze che i corpi attoriali creano: Valeria Golino riecheggia il suo personaggio di madre alle prese con la turbolenza adolescenziale de La guerra di Mario rovesciandolo però di segno e trasformandolo in una figura “terrena” e ansiogena. Claudio Santamaria, dal canto suo, nell’inseguire modelli melodici “lontani” e di successo, sembra una visione patetica del Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. E durante le loro peregrinazioni, Vincent e Willi si imbatteranno anche in un circo dove farà capolino la magnetica Tania Garribba, già sibilla del Primo Re di Matteo Rovere. Resta fuori dal conto l’irresistibile Vincent dell’esordiente rivelazione Giulio Pranno, che con il suo agire febbricitante, lo stupore candido di fronte alla vita e l’ostinazione con cui persegue i suoi affetti, dona l’esatto punto di prospettiva a un film ben codificato in un genere, ma “aperto” alle più varie contaminazioni emotive. Anche per questo, pur con qualche inciampo di scrittura, il film di Salvatores si rivela vincente per come empatizza evidentemente con i suoi personaggi, proprio l’aspetto che altrove appariva più forzato e subordinato ai virtuosismi registici del caso, qui abbastanza contestuali alle varie situazioni di volta in volta affrontate. Una piccola e bella sorpresa. Presentato Fuori Concorso alla Mostra di Venezia 76.