Sulla verità ci ha riflettuto per tutta la carriera, la persecuzione invece Roman Polanski la conosce bene, sin dall’infanzia all’ombra del nazismo, tacendo su tutte le altre disavventure di una vita perennemente in bilico fra gli opposti. Sarà anche per questo che da dieci anni inseguiva questa ricostruzione dell’affaire Dreyfus, il più importante conflitto politico-sociale della Terza Repubblica francese, alla fine del XIX secolo, dove l’eponimo ufficiale ebreo fu incriminato per altro tradimento pur essendo innocente. Già in queste poche righe si può comprendere quindi l’identificazione che Polanski deve provare con lo stesso Dreyfus e che, in uno di quei ribaltamenti geniali che caratterizzano la sua filmografia, è invece qui ritratto come un personaggio con cui non è molto facile empatizzare, a causa dei modi estremamente scarni e del piglio duro con cui si pone verso il prossimo (molto interessante la caratterizzazione di un irriconoscibile Louis Garrel). Il che naturalmente non giustifica, ma anzi ispessisce i termini del difficile confronto umano, civile e politico che si apre in merito alla sua presunta colpevolezza. D’altra parte anche il principale difensore di Dreyfus, il tenente colonnello Georges Picquart (un ottimo Jean Dujardin), non nega la sua scarsa simpatia verso gli ebrei, salvo poi scindere la ragione della verità da quella della persecuzione, appunto. È su questo limitare che Polanski inscena un esaltante legal-thriller, che si combatte fra le aule di tribunale e gli uffici dell’amministrazione pubblica e militare, tra le sedi dei servizi segreti, le botteghe dei grafologi, sulla carta stampata e nelle vie di una Francia straordinariamente credibile e materica nella sua ricostruzione d’epoca, ma capace di trasfigurarsi direttamente nell’oggi a causa della modernità delle istanze sollevate dal racconto.
Proprio il linguaggio dei luoghi pone in essere una dialettica estremamente efficace tra la fissità storica di una vicenda i cui confini sono già noti e la preferenza polanskiana per un mondo chiaroscurale dove i personaggi riescono a reinventare i rispettivi ruoli offrendo un’ampia gamma emotiva: si noti, a mero titolo di esempio, come prende letteralmente vita la lettera aperta di Emile Zola (il suo J’accuse appunto) che denuncia le mancanze e le colpe delle autorità. Il ribaltamento dell’antipatico Dreyfus in vittima di una persecuzione ad ampio raggio, diventa così il perno attraverso il quale la società del XIX secolo (e quella odierna che in essa si rispecchia) attua una triangolazione fra la verità fattuale, quella che si cerca di far emergere tra le procedure e i depistaggi, e quella infine che si vuole imporre per preservare l’immagine predefinita di uno Stato che non può commettere errori. La “ragion di Stato” in nome della quale le autorità compiono i loro sabotaggi dell’indagine di Picquart diventa pertanto un complesso di regole autoreferenziali, nel cui scarto dalle istanze reali sta il nucleo della ricerca polanskiana. L’indagine di Picquart, in questo modo, non è soltanto orientata alla salvaguardia di un innocente, quanto a scardinare un complesso di regole che sovrasta gli uomini perché poggia sulle sue istanze più direttamente “di pancia” pur laddove invece si appella all’intelletto. In particolare Polanski punta naturalmente il dito contro l’antisemitismo che però, al di là delle facili attribuzioni autobiografiche, è a sua volta un pretesto per indicare tutti i particolarismi di un mondo attuale che sempre più crea divisioni etniche e respinge chi non è conforme a una certa idea “pura” di cittadinanza.
Se dunque il sistema è sostanzialmente un organo di autoconservazione con cui una particolare idea di Stato innalza recinzioni e separa gli uni dagli altri, il film coraggiosamente oppone una proposta di superamento delle regole. Lo fa anche attraverso il ruolo non troppo secondario concesso alla relazione tra Picquart e l’amante Pauline Monnier (la sempre splendida Emmanuelle Seigner), l’unico autentico legame amoroso verso il quale il film non nasconde la propria entusiastica adesione, pur essendo del tutto fuori dai canoni dell’epoca. Non a caso i due decideranno infine di non convolare a nozze, anche quando la loro relazione diventerà pubblica e avrebbero tutte le buone ragioni per conformarsi. Ma, anche qui, il ribaltamento polanskiano è in agguato: dopo essere diventato il suo e nostro paladino della verità, Picquart nell’ultima scena si presenta sotto una veste nuova. Il sistema si autoconserva nonostante tutto, mentre il cinema di questo grandissimo “giovane vecchio” del cinema è sempre ironicamente lucidissimo nella sua visione del mondo. Presentato in Concorso alla Mostra di Venezia 76.