Venezia79 – Il lento svelarsi della verità in Beyond the Wall di Vahid Jalilvand

Il cinema di Vahid Jalilvand con Beyond the Wall, nella sezione del Concorso, conferma non solo le sue già collaudate qualità, ma anche un comune denominatore che caratterizza, ancora una volta, l’impianto della storia. Il percorso autoriale di Jalilvand, forse la personalità più interessante della nuova generazione di registi del post Kiarostami, è tutto passato dagli schermi del Festival di Venezia a partire dal suo primo Un mercoledì di maggio, per proseguire al successivo Il dubbio, approdando ora a questo Beyond the Wall che traccia nuove prospettive anche nel più complessivo scenario del cinema iraniano. In questa occasione, infatti, ai temi della solidarietà, costante elemento narrativo nei film di Jalilvand, si aggiunge una speciale e maggiore tensione narrativa che fa da sfondo a un’altra forma del manifestarsi della solidarietà nella quale, come al solito, trovano spazio i temi di una inevitabile etica dei comportamenti. Nella girandola del tempo di Beyond the Wall si assiste al salvataggio di una donna, sfuggita all’arresto a causa di un incidente stradale in cui rimane coinvolto il cellulare della polizia che trasporta la donna, a opera di un uomo quasi non vendente in un anello temporale nel quale lo spazio della percezione del reale sconfina nella sua immaginazione dentro un mondo parallelo, ma anch’esso imperfetto. Jalilvand alza la posta del suo cinema e affina le sue armi narrative anche sotto il profilo delle ambientazioni, essenziali ed evocative al tempo stesso, in un film complesso nel quale i temi che gli appartengono si fanno esasperati in una corrispondente ed eccessiva messa in scena che si avvale di una inattesa dilatazione temporale nella quale il racconto diventa insostenibile nel sovraccarico di tensione che contiene.

 

 

È proprio da questa esasperazione che prendono le mosse i fatti che maturano durante una manifestazione di alcuni operai che rivendicano il pagamento dei loro salari che non percepiscono da quattro mesi. La rivolta lentamente degenera e Leila, erroneamente accusata sarà arrestata, ma a causa dell’incidente riuscirà a fuggire, e prima dell’arresto avrà perso il suo bambino che non riuscirà a trovare nonostante la fuga. Da qui per lei e per Alì, l’uomo che l’aiuterà, comincerà l’odissea. Leila si rifugia nel condominio popolare dove abita anche Alì, ma non riuscirà ad uscirne per ritrovare il figlio, poiché il caseggiato è assediato dalla polizia. Un racconto circolare, subdolamente affascinante, in cui il rivivere il dramma trasforma il film in un thriller teso e misteriosamente non del tutto svelato, un film che ha necessità di quel tempo dentro il quale deve maturare lo stratificato racconto per potere manifestare lo svelarsi della verità nella sua piena forma. Al tempo stesso un film sulla difficile percezione della verità con una cecità ormai irreversibile che simbolicamente colpisce Alì, il protagonista del film per dare significato alla sua incapacità di vedere con lucidità una verità che solo adesso può intuire, ma senza perfettamente riuscire a metterla a fuoco. Sotto altro profilo l’antagonismo naturale dei personaggi, ci spinge verso una direzione di opposizione politica, di lettura critica, per quanto molto bene metaforizzata, del presente assetto politico del Paese.

 

 

Tesi questa avvalorata da una sorta di clandestinità che ha segnato le riprese, quasi tutte avvenute nel chiuso protetto di un hangar nel quale sono stati ricostruiti gli scarni ambienti dento i quali si muovono i personaggi. Jalilvand costruisce un film a incastro, frammentando a tratti il racconto con innegabile sapienza e dominando il difficile climax che la trama sa offrire. Un segno positivo di un cinema che complessivamente, sotto la sferza di una censura invadente e oppressiva, sa innovarsi attraverso una appropriazione in chiave culturalmente autonoma dei generi, operando quel rinnovamento (By Roia in Orizzonti di Arian Vazirdaftari costituisce in questo festival un altro esempio mirabile di questa fase del cinema iraniano) dentro una consolidata tradizione che appartiene ormai di diritto alla storia del cinema. È proprio la finora breve filmografia del regista che ci offre la chiara conferma di questa ipotesi, il suo scorrere da un racconto che restava nell’ambito di un realismo assoluto, nel quale ogni elemento si assorbe dentro un registro narrativo corrispondente al rapporto tra causa ed effetto, a questo film nel quale compare con forza dirompente e assoluta, pur all’interno di uno sviluppo solo apparentemente realistico, quel piano di inaccessibile realtà nel quale rivivere, sulla superficie di un invisibile e sempre più sfumato ricordo, il trauma della violenza e sperimentare, ancora una volta, le forme della solidarietà prima che il sogno svanisca e resti imprigionato in un tempo infinito e in quello spazio opprimente del presente.