De Il signore delle formiche, in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si vorrebbe dire il meglio possibile, perché il suo regista, Gianni Amelio, ha un posto indiscusso nella storia del cinema italiano moderno e perché l’oggetto del racconto è un’orrenda vicenda giudiziaria che apre uno spaccato esemplare sull’arretratezza culturale dell’Italia del dopoguerra: nel 1964 il quarantaseienne Aldo Braibanti, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, mirmecologo e prima ancora partigiano, comunista e omosessuale dichiarato, viene denunciato per plagio dal padre del ventitreenne Giovanni Sanfratello, andato a convivere con lui a Roma due anni prima per fuggire alla famiglia oppressiva e ultraconservatrice; nonostante Sanfratello, sottoposto in manicomio a elettroshock e shock insulinici, dichiari di non essere stato plagiato da Braibanti, il processo, influenzato da un pubblico ministero e condotto da un giudice di formazione sfacciatamente fascista, si chiude nel 1968 con la condanna dell’accusato a nove anni di reclusione, poi ridotti a sei, poi a quattro, di cui due condonati perché partigiano.
Una vicenda che nella realtà storica, peraltro ricostruita con grande intelligenza nel documentario Il caso Braibanti (2020) di Massimiliano Palmese e Carmen Giardina, ci ricorda come in Italia il fiume carsico del fascismo, che neanche la Seconda Guerra Mondiale e la Costituzione repubblicana hanno del tutto bonificato, torni ciclicamente a scorrere in superficie avvelenando la convivenza civile e minacciando i diritti delle persone, mai acquisiti una volta per tutte. Una vicenda che, purtroppo, nella realtà fittizia della sceneggiatura de Il signore delle formiche, scritta da Amelio insieme a Edoardo Petti e Federico Fava, nonostante l’enfasi melodrammatica costante, il survoltaggio di quasi tutte le scene, come se ognuna ambisse a diventare a suo modo una scena madre, perde mordente proprio a causa di quell’ingorgo di sottolineature e carichi emotivi, che a volte diventano caricature sotto il peso delle quali il racconto annaspa, si affatica, perde vitalità e slancio politico. Mentre tutti gli attori, dal veterano Luigi Lo Cascio (Aldo Braibanti) agli esordienti Leonardo Maltese (Ettore, alias di Giovanni Sanfratello), alla cantante lirica Anna Caterina Antonacci (Maddalena, madre di Ettore), a Rita Bosello (Susanna, madre di Aldo), a Roberto Infurna (Manrico, fratello di Ettore), respirano affannosamente mentre staccano battute sempre ponderate, cariche di emozioni, dense di significati, secondo un’economia più teatrale che cinematografica, il racconto perde naturalezza di respiro proprio a causa di quella iperventilazione interpretativa. Sfuggono a questo meccanismo implacabile Elio Germano, che interpreta con la sovrana leggerezza sua propria il giornalista Ennio Scribani, e Maltese nella seconda parte del film, in particolare nelle scene della testimonianza al processo e dell’incontro finale con Aldo, in cui sembra trovare il passo del personaggio e lasciarsi finalmente andare.
Non è certamente un caso che Ennio sia l’unico personaggio estraneo alla vicenda reale (ma anche alter ego del regista, che di quella vicenda fu testimone diretto) e che le due scene che coinvolgono Ettore siano l’una ampiamente romanzata (non sono stati conservati gli atti del processo reale) e l’altra del tutto inventata (dopo il processo Braibanti e Sanfratello non si incontrarono più). Dunque il film sembra prendere quota solo dove il racconto si sottrae ai vincoli della storia reale, reiventandola liberamente, cercando di ricostruire ciò che nessun atto o articolo può conservare, l’emozione di chi l’ha vissuto, ovvero il proprio della finzione secondo l’intramontabile ricetta manzoniana: lo storiografo metta in sequenza i fatti nudi, il romanziere (o lo sceneggiatore, aggiungiamo noi) li vesta con i loro moventi, effetti, risonanze pulsionali, riverberi relazionali. Il signore delle formiche resta impantanato nel guado che separa la storiografia dalla finzione, danneggiando l’integrità documentaria dell’una e l’efficacia estetica dell’altra. Non lo salvano né la scelta di dare grande rilievo alle figure delle due madri, secondo una logica edipica che sa di psicoanalisi di risulta, né le frequenti citazioni pasoliniane (il volto della madre di Aldo, che si chiama Susanna, come quella di Pasolini; l’inquadratura di Ettore al manicomio, da Mamma Roma; i ragazzi di vita che si prostituiscono o ci provano con Braibanti; lo spettacolo in mezzo al nulla con i figuranti che giocano a pallone, da La ricotta, ecc.).
In fondo a quel compromesso non riuscito, però, un istante prima di congedarsi da noi, Amelio imprime al film uno slancio che lascia il segno e che ci spinge fuori dal cinema con la sensazione spaesante di un innamoramento fuori tempo massimo: mentre Aldo ed Ettore, nella sequenza che abbiamo già menzionato, si incontrano un’ultima volta annichiliti dall’emozione e rassegnati alla loro sorte in mezzo a un campo dove si sta allestendo una recita campagnola di Aida di Giuseppe Verdi, per la quale Ettore dipinge le scenografie, sentiamo la voce di Radames (interpretato da Carlo Bergonzi nell’incisione storica diretta da Herbert von Karajan) che, nella tomba dove è stato murato vivo insieme ad Aida, le dice «T’avea il cielo per l’amor creata, / ed io t’uccido per averti amata! / No, non morrai! / Troppo t’amai! Troppo sei bella!», e Aida (Renata Tebaldi) risponde «Già veggo il ciel dischiudersi… / ivi ogni affanno cessa… ivi comincia l’estasi / d’un immortale amor». Una promessa impossibile, un amore che sulla terra non poteva realizzarsi, ma che è stato immortalato allora da chi lo ha provato e ora da chi ha tentato di raccontarlo: fosse stata questa la chiave dell’intero film, il nostro innamoramento, a sua volta, avrebbe avuto il tempo di trasformarsi anch’esso in amore.