L’altro versante del cinema di Yorgos Lanthimos: Povere creature!

C’è aria di continua reinvenzione nel cinema di Yorgos Lanthimos, che dalla tragedia lacerante del sacrificio del cervo sacro o di Lobster è poi passato senza soluzione di continuità ai divertenti e divertiti intrighi di corte de La favorita. Il suo  Povere creature! ((in Concorso alla Mostra di Venezia 2023) parrebbe porsi nel solco del film che l’ha preceduto, ma allo stesso tempo ne allarga la portata, in un goloso gioco cinefilo che dal cinema delle origini si sposta al presente: girato in pellicola, ma fortemente elaborato in post-produzione, con sfondi digitali che trasfigurano gli scenari in un’ottica tra Méliès e Terry Gilliam, il film parte come un rovesciamento sui temi dei gotici anni Trenta, tra James Whale e i Freaks di Tod Browning. Il cipiglio ricucito di un Willem Dafoe, chirurgo brillante che pare un mostro di Frankenstein passato dall’altro versante del tavolo operatorio, ci introduce così a un mondo di animali che ibridano tra loro differenti specie, mentre il suo genio ridona vita al corpo annegato di una donna (ribattezzata “Bella Baxter”), innestandole nel cranio il cervello del feto che porta in grembo. Al pari del piglio con cui l’autore si reinventa e cerca di rivedere la storia del cinema con sguardo innocente e un citazionismo che non sia strettamente referenziale, così Povere creature! si adegua allo sguardo puro della sua protagonista, che deve letteralmente reimparare a vedere il mondo.

 

 

A muoversi, a parlare e a esercitare la sua sessualità in modo libero e non convenzionale, come nel più disinteressato (ma al contempo sensorialmente coinvolto) degli esperimenti. Il tutto avviene in un laboratorio allargato ben presto all’intero mondo, con le varie tappe (Lisbona, Parigi, Londra) che compongono ulteriori quadri nel mosaico caro all’autore. E richiamano a loro volta differenti generi: se la prima parte corteggia la cifra disturbante dell’horror gotico (a iniziare dall’eccellente uso del bianconero), il prosieguo sembra uscito da un’opera di Jules Verne raccontata da Karel Zeman, mentre i toni si fanno sempre più ironici e sovraeccitati (e qui si vede che la lezione del citato La favorita non è passata invano). In questo modo, Lanthimos libera quel senso opprimente della messinscena che lo ha spesso caratterizzato, quella sensazione di sovrastare i suoi personaggi, trovando una complicità perfetta con una Emma Stone che si dona a Bella con la stessa purezza della sua vita rinnovata, offrendo una performance-carriera di coinvolgente trasporto. Mentre impara, Bella si spoglia (letteralmente) di ogni convenzione, sperimenta sensazioni e rapporti personali con effetti devastanti verso chi le sta vicino – un Mark Ruffalo, straordinariamente sospeso tra cialtroneria e umanità – e vive la vita come oggetto tattile iscritto sul suo corpo.

 

 

Per Lanthimos è l’occasione ideale di analizzare ancora una volta le dinamiche interpersonali, ma attraverso la lente deformante di un grottesco che diventa chiave d’accesso a uno spettro emotivo ampio e appassionato. Si ride, ci si sorprende, si sperimenta una inedita sensualità data dalla liberazione totale del corpo, che lentamente si allarga a quella dei set, che si rinnovano in una visualità caleidoscopica. In questo modo, il gioco di osservazione sulle “povere creature”, disegna prospettive continuamente rinnovate: la distinzione tra chi usa e chi viene usato (da sempre centrale nell’opera dell’autore greco) dona forma a una vertigine carnevalesca. Al centro di tutto resta comunque sempre l’idea di un nucleo da smontare e rimontare, che nel segmento finale permetterà a Bella di completare il suo viaggio rimettendo insieme i pezzi della sua vita e della sua improbabile famiglia non convenzionale. È l’approdo finale, in cui la risata può spingere anche a momenti più toccanti, sintomo di una vicenda che non vuole smettere di sorprendere fino alla fine.