Una origin-story canina: Dogman, di Luc Besson

Stavolta non ci saranno i servizi segreti a proiettare verso mondi glamour e missioni mozzafiato, né avventure pronte a condurre tra il popolo dei Minimei, le città dei mille pianeti o gli enigmi dei faraoni. Perché il Douglas di Dogman, diciannovesima regia di Luc Besson, fra i personaggi dell’autore francese è invece quello più direttamente ancorato alla terra. Letteralmente, poiché una fucilata del violento patrigno lo ha costretto fin dalla giovane età su una sedia a rotelle. Tanto che, ogni qualvolta proverà ad alzarsi, finirà inevitabilmente  prostrato sul pavimento. Lì però ci saranno sempre a circondarlo quei cani che costituiscono il suo unico affetto e, sotto molti aspetti, quasi un prolungamento dei suoi arti, per come lo aiutano, lo accompagnano, gli portano ciò di cui lui ha bisogno. Un po’ per un legame di solidarietà molto speciale, un po’ per la legge del mutuo soccorso, avendo egli dedicato tutto sé stesso a liberarli dalle gabbie (del padre che li allevava per i combattimenti prima, del canile statale poi). Da questo versante, Douglas è certamente l’ennesimo outsider della filmografia bessoniana, solitario come Léon con la sua pianta, disponibile al confronto soltanto con una controparte, rappresentata in questo caso da Evelyn, psichiatra di colore del New Jersey, che svolge un po’ l’alter ego del pubblico, affascinata dal caso – di cui coglie il precipitato umano, fatto di dolore e solitudine come il suo – ma allo stesso tempo anche inquieta per l’ambiguità con cui l’uomo giustifica le sue azioni.

 

 

Respinto da famiglia, datori di lavoro e gente comune, Do(u)g usa infatti i suoi cani per compiere rapine con cui sostenere la sua famiglia e attività, in una sorta di divertita reminiscenza del dimenticato La gang dei Doberman, ibridata naturalmente alle missioni di Nikita. Besson, in tal senso, decostruisce e ricompone le dinamiche uomo/animale, corteggiando l’iconografia horror dei “cani che uccidono”, ma con un’affettuosità che non perde mai di vista come più della bestia può l’uomo, estremamente più feroce nei suoi attacchi, tanto da meritarsi la peculiare giustizia canina eterodiretta dal protagonista. Naturalmente ciò implica un equilibrio peculiare sul filo della verosimiglianza, che però non stupirà chi ben conosce la ricostruzione del reale da sempre centrale nell’opera di Besson: più che raccontare, infatti, Doug letteralmente mette in scena un mondo tutto suo, raffigurandolo grazie a una capacità affabulatoria particolarmente teatrale – straordinaria in tal senso la prova attoriale di Caleb Landry Jones.

 

 

Non a caso, sue caratteristiche peculiari sono la tendenza al travestitismo, l’uso del make up, i numeri sul palco dei drag show, le vestizioni rituali. Il tutto mentre i rivali devono ricorrere ai dispositivi ottici, come le videocamere di sorveglianza, per scoprire le sue macchinazioni. L’umanità del plot trascolora così senza soluzione di continuità nella pura rappresentazione, dando forma a una precisa origin-story da cattivo di un novello cinecomic. L’uomo dei cani, insomma, come il Joker di Todd Phillips (per il make up bianco in viso, l‘audacia dei suoi piani), o come l’Uomo di Vetro di Shyamalan, in sedia a rotelle e vestivo violaceo. Il che conferma la capacità auto rigenerante del cinema di Besson, capace di cogliere gli stimoli della contemporaneità, oltre a essere una volta di più non soltanto questione di cosa si vede, ma anche delle vertigini che le sue storie e le sue immagini naturalmente provocano. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023.