Viaggio alla fine della coscienza. Siberia di Abel Ferrara su RaiPlay

Siberia: come terra lontana, come distanza che separa il corpo dallo spirito, lo spirito dalla mente, la mente dai ricordi, i ricordi dalle verità… Dopo quella sorta di esercizio di estradizione biografica che ha messo in atto con Tommaso (film straordinario, purtroppo incompreso dai più al suo marginale passaggio a Cannes), Abel Ferrara compone sulla materia magmatica della soggettività esistenzialista questo suo nuovo film, Siberia, in Concorso a Berlino 70. Oggetto che ha la plasticità lirica antica di un verseggiare quasi dantesco, inciso come una stampa di Gustave Doré nei gironi della sofferenza dell’individuo scaraventato nella solitudine della sua colpa. Willem Dafoe è il corpo sacrificale, ovviamente risonante di scorsesiane cristologie come già in Tommaso: figura che contiene l’intero dispendioso disturbo psicologico e spirituale di cui il film si fa carico.

 

 

Quello ordito da Abel Ferrara è un trip soggettivo profondo come l’inferno dei sensi di colpa in cui Clint, il protagonista, si ritrova immerso: la solitudine e la lontananza cui si è condannato, vivendo in un deserto di freddo e di neve, sono la pena autoinflitta per le colpe di cui si fa carico. Colpe che attraversa, come un viaggio interiore sanguinante e liberatorio, nei vari gironi del delirio in cui sprofonda il film. Lo spaccio che gestisce, disperso nei ghiacci di una vagheggiata “Siberia”, è punto d’incontro per scarse figure solitarie che gli si presentano come fantasmi di una condizione interiore: un eschimese che beve rum, una vecchia russa che gli offre il florido corpo della ex moglie incinta (Dounia Sichov), poi lo spettro del fratello che gli rinfaccia il passato, il padre che lo tratta come un ragazzino… Clint attacca i cani alla slitta e si spinge nel gelo, verso un abisso sempre più surreale e introspettivo, in cui attraverserà le stagioni della sua esistenza, i ricordi ma anche le speranze, deserti di sabbia, campi primaverili sfioriti, un rosseggiante tramonto sotterraneo, l’improvviso spalancarsi di baratri spaventosi…Abel Ferrara si affida al versante compulsivo del suo cinema, quello che lo costringe nelle forme di un dissidio interiore mai rimarginato, di un sentimento della colpa che lo aggredisce e trasforma il suo filmare in un flusso di coscienza doloroso. Siberia è l’ennesima fine del mondo ferrariana, chiusa nella stanza della confusione, come già accadeva in New Rose Hotel, 4:44 Last Day on Earth o, a suo modo, anche Go Go Tales… Il film ha la struttura implosiva della visione che contempla se stessa e non rimanda a un impianto realistico: tutto ruota attorno al corpo astratto eppure così fisico di Willem Dafoe, che è interprete totale, figura che rende lirico e pulsionale il suo rapporto con lo spazio e il senso del filmare cui si offre generosamente. Ferrara segue il suo istinto e non cerca mediazioni alle visioni che contempla in se stesso: Siberia è ancora una volta un oggetto disperso, distante e affascinante, di sicuro non facile da amare.