Wild Men – Fuga dalla civiltà di Thomas Daneskov e le contraddizioni della modernità

Cercando se stessi nella natura selvaggia dell’entroterra norvegese, anelando autenticità, trovando invece un amico, (forse) un tesoro. In Wild Men, il giovane regista danese Thomas Daneskov gioca abilmente con i registri narrativi per allestire un dispositivo filmico dalle molteplici sfaccettature, che inizia simulando un’opera in costume da profondo Nord, in cui introduce elementi drammatici e thriller, optando tuttavia quasi sempre per lo scioglimento grottesco delle situazioni in stile da black comedy (ancor più quando la vicenda principale vira sul buddy-movie on the road), salvo ritagliarsi un finale da redde rationem in salsa gangster, che suona allo stesso tempo straniante e catartico. La storia è introdotta da immagini lividamente autunnali, che ci portano al cospetto di un uomo massiccio di mezza età, vestito di pelli d’animale, con arco e frecce a tracolla, il quale piange sconsolato in un bosco ai piedi di montagne innevate. Cerca, costui, di procurarsi cibo cacciando alla maniera degli indiani: manca però il facile bersaglio rappresentato da una capra selvatica, e deve accontentarsi di un rospo, cotto su un fuoco acceso all’aperto, nel gelo della notte.

 

 

Ma la fame è talmente intensa da indurlo a un compromesso con il proprio orgoglio, spingendolo a uscire dalla foresta e metter piede in una moderna stazione di servizio, dove prova a barattare pelli e armi rudimentali in cambio di panini, scatolame e alcolici, ma senza successo. Viene anzi aggredito dal titolare dell’emporio e, avuta fortunosamente la meglio, se ne torna tra i boschi con il piccolo malloppo. Lo spettatore ha così fatto la conoscenza con Martin (un impagabile Rasmus Bjerg), di cui viene subito a sapere che è un danese (attraverso una di quelle gag interscandinave che tanto piacciono, per esempio, all’ultimo Lars Von Trier), e apprenderà in seguito maggiori particolari, per arrivare a conoscere la figura di un manager confuso e infelice (all’insaputa dell’incredula famiglia), deciso a ritrovare se stesso attraverso un’esperienza da autentico selvaggio in terra “vichinga”. La sua solitudine è tuttavia interrotta da Musa, un corriere di hashish che è sopravvissuto, parecchio malconcio, a un incidente d’auto. Incontrata la quale, per i due inizia una fuga rocambolesca verso la cittadina da cui parte il traghetto per la Danimarca: un viaggio che per Musa può significare salvezza, mentre per Martin pare essere temporaneo riempitivo di un vuoto che fatica a definire.

 

 

Dentro un film in cui le donne sono relegate a ruoli nulli o marginali (succede anche alla sconcertata moglie di Martin, che appare e scompare dalla vicenda senza lasciare traccia di sé), Daneskov si burla irriverente (ma allo stesso tempo con malcelata empatia) del maschio in crisi rispetto al suo ruolo nella società e ciononostante incline a velleitarie dimostrazioni di potenza che non fanno che amplificare l’eco della sua fragilità. Non c’è una soluzione diretta per il tormento interiore di Martin, o quantomeno il regista non ne lascia intravvedere nemmeno al termine di una traiettoria che si assesta più volte in corsa. Ma ci sono vie laterali da sondare, tra cui trova parecchi appigli quella semplice (o magari semplicistica) secondo cui “ci vorrebbe un amico”. Ciò che residua delle possibili riflessioni esistenziali, filosofiche e finanche ecologiste (da decrescita felice e dintorni), non supera mai il livello superficiale di un film che, anche per questo suo mescolare continuamente le carte senza comunque smarrirsi, risulta più che apprezzabile. In Daneskov non si materializza la stessa ferocia di Ruben Östlund (più esplicitamente autoriale e riconosciuto a livello critico) nel mettere al centro del mirino il disorientamento, la perdita di coordinate (più sociali che morali), dei propri personaggi; egli conserva un atteggiamento tutto sommato comprensivo nei loro confronti. Con qualche sparso richiamo al cinema dei fratelli Coen, Wild Men non deve nemmeno troppo forzare sul piano del ritmo affinché affiorino le contraddizioni della modernità, accontentandosi che esse fluiscano naturalmente dalle situazioni medesime, per mostrare il loro lato grottesco e paradossale. È in tal senso memorabile, pur nella sua asciuttezza, la sequenza che si svolge nell’“autentico” villaggio vichingo che i due fuggitivi incontrano sul loro cammino, un luogo mitizzato dove Martin crede finalmente di essere giunto a casa, pronto a entrare in sintonia con chi sembrerebbe provare la sua stessa nausea verso la società, e si ritrova invece a fronteggiare un manipolo di figuranti permalosi, che paiono la versione nordica dei questuanti mascherati da centurioni al Colosseo, soltanto meglio organizzati in collettivo e attrezzati per essere pagati con ogni tipo di carta di credito.