Dell’amore della morte, la potenza della scomparsa nel cinema di oggi

copWalter Benjamin diceva che raccontare storie consente non solo di «appropriarsi il corso delle cose», ma anche di «riconciliarsi col loro scomparire, con la potenza della morte». Jack Gladney, narratore e protagonista di Rumore bianco (1985) di Don DeLillo afferma perentorio: «L’unica cosa da affrontare è la morte». La narrativa occidentale si occupa di questo fin dalle sue origini. Ulisse narrava la propria storia alla corte dei Feaci, incapsulando nel suo racconto una discesa nel mondo dei morti per chiedere all’indovino Tiresia una predizione sul suo ritorno in patria; Enea raccontava la propria storia alla corte cartaginese e successivamente discendeva agli inferi per chiedere al padre Anchise lumi sulla sua nuova patria; Dante raccontava il suo viaggio nell’aldilà cristiano alla ricerca di lumi sul presente e sul futuro dell’umanità. Murray J.Siskind, collega accademico e amico di Jack, specula sul potere apotropaico del racconto: «Siamo tutti coscienti che non c’è scampo alla morte. Che fare, con una consapevolezza tanto schiacciante? Rimuoviamo, camuffiamo, seppelliamo, escludiamo. […]Dolore, morte, realtà, queste sono cose innaturali. Non possiamo sopportarle così come sono. Sappiamo troppo. Quindi ricorriamo alla rimozione, al compromesso, al camuffamento. È così che sopravviviamo nell’universo. È questo il linguaggio naturale della specie». Il dolore, la morte, perfino la realtà, sono “innaturali”, cioè contrarie alla natura dell’uomo, che, al di là (ovvero prima) della coscienza, è mossa da un divorante principio di piacere, secondo il quale ogni desiderio è irrinunciabile e ogni ostacolo inconcepibile. La sua sopravvivenza, legata al linguaggio “naturale” della specie, è possibile solo grazie alla rimozione, al compromesso, al camuffamento. Il racconto, letterario o audio-visivo, è la variante più preziosa di quel linguaggio, uno strumento portentoso di elaborazione e controllo, che si serve degli esorcismi della manipolazione e della negoziazione per creare forme e progetti sempre nuovi. Siamo ancora dalle parti di Sigmund Freud, che Murray stesso evoca a sostegno delle sue teorie: come il sogno, l’«arte vera incomincia con la dissimulazione dell’inconscio», mediante «rimodellamenti, travestimenti e omissioni». Una dissimulazione euristica, dunque, fatta di deformazioni e cancellazioni propedeutiche: una sorta di lente anamorfica che, alterando una parte del visibile, rende visibile una parte dell’invisibile.

Demolition
Demolition

Nel cinema dell’ultimo anno questo bisogno di riconciliarsi con la scomparsa delle persone e con la potenza della morte è particolarmente presente, declinato in modi molto diversi, entro orizzonti assiologici assai variegati. Demolition – Amare e vivere di Jean-Marc Vallée, che ha aperto il Toronto International Film Festival il 10 settembre 2015, è tutto incentrato sulla rielaborazione di un lutto tipico, perfino banale (un giovane uomo perde la moglie in un incidente stradale), ottenuta attraverso un processo tutto esteriore ma tutt’altro che ovvio: il protagonista (Jake Gyllenhaal) non cerca la risposta guardando dentro di sé, ma guardando dentro gli oggetti esterni, e per fare ciò li deve aprire, smontare, demolire, dagli orologi alla casa coniugale; non riuscendo a svuotarsi (del suo dolore inespresso), svuota, non riuscendo a struggersi, distrugge. Alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia hanno fatto incetta di premi film carichi di pulsioni di morte e di tutti i loro reagenti e derivati. Animali notturni di Tom Ford, basato sul 343romanzo Tony e Susan di Austin Wright e vincitore del Leone d’argento – Gran premio della giuria, racconta di una donna (Amy Adams) che legge il romanzo del suo ex marito (ancora Gyllenhaal) che racconta la storia di un uomo (che nell’immaginazione della lettrice ha il volto dell’ex marito) cui vengono stuprate e uccise moglie e figlia: l’elaborazione del lutto del personaggio anche in questo caso è esteriorizzata nella ricerca e nella punizione degli assassini, ma mentre il film procede si ha la sensazione che quel lutto celi la vendetta dello scrittore verso la ex moglie, cui sadicamente impone la lettura straziante del romanzo e un’immagine brutale del Texas da cui lei proviene (dove si volge anche il romanzo) e quindi anche della sua anima indurita. Frantz di François Ozon, ispirato a L’uomo che ho ucciso (1932) di Ernst Lubitsch e vincitore del Premio frantzMarcello Mastroianni (alla protagonista Paula Beer), racconta con un’alternanza straordinariamente illusiva di bianco e nero e colore l’elaborazione di un lutto (dei genitori, della fidanzata e di quello che sulle prime sembrerebbe un amante di un ragazzo tedesco morto durante la Prima Guerra Mondiale) che cela invece l’elaborazione del senso di colpa dell’assassino verso la vittima, un bisogno disperato, sincero e irresistibile di (auto)assoluzione che sconvolge ma allo stesso tempo rigenera la vita dei superstiti. Infine Paradise di Andrei Konchalovsky (nell’immagine di apertura), vincitore del Leone d’argento – Premio speciale per la regia ex-aequo con La región salvaje di Amat Escalante, che racconta il lutto dei lutti, quello del genocidio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, buco nero nella coscienza dell’Europa del Novecento, storia che deve sempre essere raccontata ma che di fatto diviene sempre più irracontabile, mostratissima ma inguardabile, sceneggiata ma oscena: a meno che, come fa genialmente Konchalovsky, non si dia la possibilità ai morti stessi (sia i carnefici che le vittime) di raccontare, ricomponendo una storia che nella realtà resta incomponibile.

Paradise
Paradise