Perché la cultura classica non morirà mai? Perché, nel bene o nel male, continua imperterrita a fornire esempi e ritratti così spaventosamente attuali anche al giorno d’oggi. Ci si accorge di ciò anche nel mondo della politica, in cui le personalità dei potenti, antichi e moderni, abbattono le barriere del tempo e si confondono, mostrando inquietanti analogie. Del resto, non possiamo dimenticare che la preziosissima retorica, l’arma di cui pressoché tutti i politici odierni si servono per vendere fumo senza un grammo di arrosto, nacque proprio nella floridissima Atene del V secolo (anche se con ben altre accezioni), un vero roaring century per la Grecia di allora, se vogliamo usare una fortunata espressione moderna. L’Atene del V secolo era l’America dai grandi ideali, dagli orizzonti sconfinati, l’ombelico attorno al quale tutto il resto orbitava: era l’Atene di Pericle, capace di fingersi uguale agli altri cittadini all’interno di una paradossale democrazia di cui era in realtà (e consapevolmente) l’indiscusso monarca; un uomo colto che, nel periodo compreso tra le Guerre persiane e la Guerra del Peloponneso, aveva trasformato la città nel più ricco centro culturale greco, favorendo lo sviluppo delle arti e della letteratura e promuovendo la costruzione di straordinarie opere pubbliche (incluso il Partenone) anche allo scopo di dare lavoro ai cittadini. A detta di molti critici, Pericle rappresentò il primo populista della storia per la sua sconfinata devozione verso gli ideali democratici, di cui fu strenuo difensore. Badiamo bene, tuttavia, a non affibbiare al termine l’accezione negativa che ha assunto ai nostri giorni: se così facessimo, definendo negativamente “demagogo” un uomo che amava sì fomentare la folla, ma con discorsi costruttivi, coinvolgendola nella sua quasi totalità in politica (introdusse infatti un salario per coloro che ricoprivano incarichi pubblici), che cosa dovremmo dire dello scialbo e vuotissimo Trump?
Niente più di ciò che ha affermato di lui il professore Mark Lilla, il quale lo ha definito, nel senso più spregevole del termine, “un demagogo che – come tutti i veri demagoghi – in realtà ha ben poco da dire”. A parlare per Trump non resta che la rabbia, unica spiegazione plausibile del suo successo, che egli ha saputo astutamente far emergere da una nazione avvilita e convinta che la chiave per tornare grande sia da cercare nella forza militare, nell’ignoranza, nella chiusura aggressiva e timorosa a tutto ciò che la circonda. Le elezioni americane di quest’anno rappresentano il trionfo dell’isteria e dello scontento popolare, riscontrabili già nell’Atene di oltre duemila anni fa: come l’America, con Obama, ha avuto il suo Pericle (naturalmente con i pro e i contro del caso), così ora con Trump sta avendo il suo Cleone. Questo ateniese “agitatore di popoli”, leader del partito popolare radicale del tempo e sostenitore di una politica aggressiva e guerrafondaia, fu davvero il primo grande demagogo nel senso negativo del termine, un ruolo che oggi calza perfettamente a Donald. E’ impossibile, per esempio, non riscontrare qualche inquietante elemento della politica misogina e xenofoba di Trump nella proposta avanzata da Cleone dopo il fallimento della rivolta di Mitilene nel 427 a.C contro Atene: in quella circostanza, il demagogo ateniese si espresse a favore dello sterminio di tutti i cittadini maschi e della riduzione in schiavitù delle donne e dei bambini della città ribelle che aveva tentato la defezione.
La domanda che dunque ci sorge spontanea, oggi come allora, è la stessa: come è possibile che due individui così loschi, Cleone nella Grecia del passato e Trump nell’America del presente, siano riusciti ad affermarsi ai vertici di due teste di serie come Atene e gli Stati Uniti? La risposta, ancora una volta, è la medesima: in entrambi i casi ha vinto la rabbia e l’insoddisfazione del popolo. Particolarmente curioso e significativo per la comprensione delle dinamiche del potere e della manipolazione è un fatto biografico relativo a Cleone: prima di salire alla ribalta al posto del defunto Pericle, il politico era un conciatore di pelli, materiale allora indispensabile per gli eserciti greci. Così, mentre il commediografo Aristofane (qui sotto il suo busto) gli dava ripetutamente del corrotto e del furfante (il politico è bersaglio prediletto soprattutto nei Cavalieri), esortando i cittadini a spodestarlo, Cleone con quegli stessi cittadini faceva affari e nel contempo li incitava alla battaglia contro la ribelle Sparta, convinto che un po’ di sano spirito bellicoso non potesse che giovare dopo gli anni di diplomazia del perbenista Pericle. Aristofane lo derideva a teatro, gli Ateniesi lo votavano nella realtà: paradossalmente, infatti, dopo aver decretato il successo dei Cavalieri il popolo andò alle urne ed elesse Cleone stratego, affidandogli la direzione della guerra del Peloponneso. Questo atteggiamento è niente più che una fotocopia un po’ datata di quanto accaduto in America l’8 novembre: l’eccessiva fiducia in una ideale elezione dettata dal buon senso ha portato molti Americani a sottovalutare il pericolo repubblicano e, addirittura, a ironizzare su di esso ritenendone impossibile il successo. Cleone e Trump sono la faccia antica e moderna della medesima medaglia, quella al collo del politico viscido e ambiguo che riesce ad ottenere il consenso attraverso la manipolazione degli umori di massa. Il messaggio senza tempo che Aristofane ancora oggi ci offre è la necessità di separare la sete di potere da un concreto e fondato programma politico, nonché di diffidare da un’oratoria torrentizia che può subdolamente riservare fini opportunistici. In omaggio al commediografo ateniese, concluderei anch’io con la licenza di una battuta: riflettendo sull’etimologia dei nomi, Pericle in greco significa “circondato di gloria”, mentre “Trump” nello slang britannico vuol dire “peto”.