MACHINIMA. 32 Conversazioni sull’arte del videogioco (Concrete Press pag.158, euro 16,09) propone una selezione ragionata di interviste con artisti internazionali che utilizzano il videogioco come materia grezza per fare arte. La maggior parte sono state realizzate nei primi mesi del 2016 dalle studentesse e dagli studenti iscritti alla Laurea Magistrale in Arti, patrimoni e mercati dell’Università IULM di Milano in occasione della mostra GAME VIDEO/ART.A SURVEY (4 aprile – 31 luglio 2016), che ho curato insieme a Vincenzo Trione. A queste si aggiungono diversi contributi precedentementi apparsi in inglese sul sito GameScenes firmati da Mathias Jansson e dal sottoscritto. Un ultimo contributo porta la firma di Sue Zemka, docente di letteratura inglese all’Università di Boulder in Colorado. Complessivamente, questi contributi – tutti inediti per l’Italia – forniscono preziosi strumenti critici per illuminare un fenomeno ibrido e mutante, generalmente frainteso, spesso sottovalutato, talvolta completamente ignorato dalla cosiddetta critica istituzionale, quello del machinima e dell’arte videoludica. Nel contesto degli studi videoludici – altrimenti noti come game studies – le origini del machinima sono solitamente ricondotte alle pratiche di hacking di un gruppo ristretto di appassionati. Ma questa mitopoiesi enfatizza, o meglio feticizza la dimensione squisitamente tecnica del medium, relegando il machinima alla sfera del fandom. Inoltre, essa ignora una storia parallela, parimenti importante, che ha come protagonisti non i giocatori, bensì artisti come Miltos Manetas, Cory Arcangel, Brody Condon, Eddo Stern e molti altri che a partire dalla seconda metà degli anni Novanta hanno avviato un’innovativa sperimentazione. Le attività di questi artisti rappresentano delle “anomalie” che mettono in crisi il paradigma interpretativo dominante. Sotto questa luce, il machinima è considerato un genere di videoarte che si colloca in una tradizione che precede l’avvento del videogioco. Uno dei temi ricorrenti delle conversazioni pubblicate in questo libro è che gli artisti spesso ignorano deliberatamente le regole e il funzionamento del videogioco, sovvertendo tanto le modalità d’uso previste quanto l’ideologia che essi veicolano. Detto altrimenti, laddove il machinima videoludico svolge spesso una funzione promozionale, quello artistico si pone spesso in posizione critica, oppositiva.
Nel paradigma interpretativo “artistico”, la genesi del machinima è ricondotta al 1996, quando il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud presenta l’opera di Miltos Manetas Miracle in una mostra collettiva intitolata Joint Ventures alla Basilico Gallery di New York. Per l’occasione, Manetas aveva registrato alcune sequenze del simulatore di volo per Macintosh F/A 18 Hornet, trasferendole successivamente su DVD e proiettandole in loop. Il video mostra un jet da combattimento che scivola sull’acqua invece di affondare nell’oceano. È lo stesso Manetas a descrivere le origini del progetto in queste pagine. La disarmante semplicità del suo gesto appropriativo non ne diminuisce in alcun modo la sottesa genialità concettuale. Miracle non è riducibile a un ready–made duchampiano, objet–trouvé o found footage perché la sua produzione e presentazione hanno richiesto un considerevole sforzo trasformativo da parte dell’artista. Conclusasi la fase pionieristica (1996-2006), il machinima in quanto genere dotato di un proprio statuto, estetica, convenzioni e stili si evolve nella decade successiva, sviluppandosi in modo autonomo e originale nel contesto artistico anziché in quello propriamente ludico. Gli sforzi di artisti internazionali, geograficamente dispersi ma collegati in rete, variano nella forma e nei contenuti, oscillando tra il film sperimentale e la videoarte, l’installazione e il microcinema. Lo sviluppo del machinima è stato reso possibile dalla diffusione di tecnologie videoludiche a basso costo, console e personal computer in primis. Questo fenomeno è paragonabile all’introduzione sul mercato dell’elettronica di consumo di macchine da presa leggere, a basso costo, nella seconda metà degli anni Sessanta, che ha fornito a pionieri come Nam June Paik e Andy Warhol nuovi strumenti per fare arte. Si potrebbe infatti paragonare la seminale serie di Miltos Manetas, Videos After Videogames (1996–2002) – in gran parte realizzata con una console Sony PlayStation 2 – alle opere che Paik aveva realizzato con la cinepresa Sony Portapak tre decenni prima. Il machinima è una processo e un prodotto identificati da un prefisso: “ri” che esprime tanto una novità quanto una ripetizione. Si tratta, infatti, di un rilancio e di un riciclo, di una ricreazione e di una ricostruzione, di una rianimazione e di una rigenerazione. Fare machinima significa praticare l’interdisciplinarietà, integrando un ventaglio di media differenti sotto l’ombrello del digitale. Il machinima è frutto di tattiche come l’appropriazione, la manipolazione e la sovversione – dal détournement al culture jamming – di artefatti esistenti. Il suo statuto è paradossale. Da un lato è una forma espressiva parassitaria: non potrebbe esistere senza videogiochi, da cui la definizione di “opera derivata” usata nel contesto legale, specie in relazione alla legislazione in materia di proprietà intellettuale. Inoltre, è una rimediazione multimediale che sussume il cinema, il video, la fotografia, ma anche il disegno, la pittura, l’animazione, la simulazione, la computer grafica e il teatro. Il machinima è un’espressione ricombinante. D’altra parte, è un artefatto inedito: esso conserva alcuni elementi del contesto originale, ma al tempo stesso introduce nuove situazioni in contesti alternativi. Questo libro si propone di portare in primo piano queste contraddizioni, per sottolineare gli aspetti di continuità, contiguità e rottura tra il machinima ed altre espressioni artistiche di natura audiovisiva. A livello di titolazione, omaggia esplicitamente il film di Francois Girard, Thirty Two Short Films About Glenn Gould (1993). Nell’impossibilità di proporre un ritratto esaustivo del celebre pianista, Girard ha preferito fornire una serie di frammenti, suggestioni e situazioni. Parimenti, le trentadue conversazioni che formano questo libro offrono suggestioni, ipotesi e idee – talvolta dissonanti e divergenti – sull’arte del machinima. Buona lettura.
Matteo Bittanti
Estratto dell’intervista a Rewell Altunaga
REWELL ALTUNAGA
Nato nel 1977 a Camagüey, Cuba, Rewell Altunaga è un artista e curatore che vive e lavora all’Havana. Nel 2002, si è laureato presso l’Academia de Artes Plásticas Oscar Fernández Morera di Trinidad, dove ha studiato pittura, ceramica e fotografia. In quegli anni, ha lavorato prevalentemente con i new media, e in particolare i videogiochi, rimanendo affascinato dal loro potenziale artistico. Nell’ultima decade, Altunaga ha prodotto numerosi machinima, mods e installazioni videoludiche, esplorando la relazione tra ideologia, tecnologia e politica. Le sue opere sono state presentate in numerose mostre e manifestazioni internazionali. Ha partecipato a oltre trenta mostre personali e collettive a Cuba, in Italia e negli Stati Uniti. Come curatore, Altunaga ha organizzato eventi quali Brave New World nell’ambito della Decima Biennale di Cuba, The tip of the bullet, a decade of Cuban Art nonché Terms Media. Nel 2012 ha curato insieme a José Manuel Noceda il padiglione cubano all’undicesima edizione della Biennale (Shared Creations) e nel 2013 ha curato con Liz Munsell la retrospettiva Cuban Virtuality: New Media Art from the Island presso la Tufts University.
Quando hai cominciato a incorporare i videogiochi nella tua pratica artistica? Cosa ti affascina in particolare di questo medium?
Nei primi anni Novanta, il crollo del blocco comunista ha provocato una frattura nell’Europa dell’Est che è degenerata in una serie di conflitti locali e “rese dei conti”. Questo evento di enorme portata storica è stato in qualche modo prefigurato dall’incidente del reattore nucleare di Chernobyl nel 1986 e dal ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan nel 1988. Tuttavia, da bambino, ignoravo i drammi che angustiavano i cosiddetti adulti. Passavo le mie giornate insieme a un gruppo di amici in compagnia dei videogiochi. Il nostro talento con il joystick era tale che avevamo finito per competere nei circuiti underground. Va da sé che eravamo molto felici di guadagnare qualcosa in aggiunta ai nostri salari “ufficiali”. Un’intera generazione di cubani è cresciuta nei mondi in miniatura di Mario, Contra, Duke, Doom, Quake et similia. Abbiamo vissuto le generazioni a 8–, 16– e 32–bit, scatenando rivoluzioni infantili per salvare principesse fasulle e lottare per società illusorie, mentre i nostri genitori – confusi e smarriti dopo la fine inaspettata delle loro certezze – hanno esaurito le loro “risposte programmate” sulla natura del Bene e del Male. Il loro sogno di liberarsi di un nemico formidabile è improvvisamente venuto a mancare. Il loro conflitto ci sembrava persino più remoto e “virtuale” di quello videoludico. Travolti da diaspore inconciliabili e alienati da professioni incoerenti, oggi i “figli benedetti” si sono sparpagliati per il mondo. La mia passione per i videogiochi commerciali si è gradualmente dissipata, fino a scomparire quasi del tutto. Il mio interesse è ormai minimo e si limita a una manciata di titoli. Mi affascina il sollievo simbolico offerto da parodie come Grand Theft Auto, un gioco aperto, controverso e paradossale che scatena dibattiti intensi tra politici e giornalisti ogni qualvolta una nuova edizione raggiunge il mercato. Mi ha sempre colpito il fatto che politici e benpensanti passino più tempo a preoccuparsi dello stato di disordine delle città virtuali rispetto a quelle reali, che dovrebbero amministrare in vece dei cittadini. Forse perché è più facile criticare un videogioco che risolvere i veri problemi. Mi attrae inoltre la soggettività egotistica degli sparatutto che banalizzano la complessità dei conflitti reali. Questi giochi consentono all’utente di percepire simultaneamente l’impulso della morte e della distruzione che informa la super–struttura, il mercato e il consumo mediale della guerra.
MACHINIMA. 32 Conversazioni sull’arte del videogioco: Rewell Altunaga from MATTEO BITTANTI on Vimeo.
Come descriveresti la scena della Game Art cubana? Ci sono molti artisti cubani che utilizzano i videogiochi come ispirazione o materiale grezzo per fare arte?
Pochi artisti hanno fatto esperimenti in questa direzione, per cui non credo che si possa parlare di una vera e propria scena dell’arte videoludica a Cuba. Il giocatore che diventa “artista”, spesso in modo accidentale, è ben diverso dall’artista che ha in qualche modo introiettato la logica videoludica elevandola a visione di mondo, strumento percettivo, filtro per decodificare il reale. La maggior parte degli artisti cubani che usano i videogiochi lo fanno senza una reale consapevolezza dello specifico del medium. Ci sono, tuttavia, delle significative eccezioni. Rodolfo Peraza utilizza i videogiochi come tecnica anziché espediente, mentre Jairo Gutiérrez e Fernando Gutiérrez hanno esplorato il medium in alcuni dei loro lavori. Esattamente come internet, la cultura videoludica cubana si sta sviluppando in modo relativamente sommerso, lontana dalle conversazioni pubbliche. Si potrebbe affermare che gli impulsi creativi dei rappresentanti della net.art – che consideravano la rete come un medium espressivo perché facilmente accessibile, anche sul piano economico, in una società travolta dalla crisi del post–comunismo – sono naufragati. La rete, per la nostra generazione, rappresenta esattamente l’opposto. Dopo due decenni ci troviamo in un contesto segnato dalla disconnessione, dall’alienazione, dalla sorveglianza totale resa possibile dai new media. Questo spiega perché il nostro lavoro ha un carattere anti–istituzionale ed è decisamente anti–utopico. Il nostro atteggiamento di sfida al sistema e ai suoi meccanismi di governo ha implicazioni locali e globali. A Cuba, internet è percepito come un’illusione, un mondo misterioso accessibile in modo illegale, strettamente connesso al mercato nero e alla pirateria attraverso proxy: Basti pensare che un’ora di accesso costa più della metà del salario medio di un lavoratore. Per tanto, si potrebbe affermare che partecipiamo volontariamente in un processo di doppia alienazione, dato che ogni illusione è, a sua volta, alienante. In questo contesto, non esistono piattaforme ufficiali per promuovere lo sviluppo dei videogiochi: a livello di progettazione, sviluppo e distribuzione, il loro impatto è praticamente inesistente. I media e le istituzioni didattico–regressive etichettano internet come una forma di alienazione capitalista. Spetta a una manciata di individui disposti a dare vita a piattaforme pirata il compito di distribuire console, giochi e informazioni a una vasta gamma di utenti domestici. Il grande paradosso sta nella velocità con cui è possibile recuperare un videogioco dopo l’introduzione ufficiale sul mercato. In un contesto di controllo assoluto, sorge spontaneo domandarsi se le persone che filtrano e censurano le informazioni nei principali server nazionali siano le stesse che scaricano e distribuiscono migliaia di gigabyte di film, documentari, serie TV, software e videogiochi, organizzandoli sotto forma di “pacchetti di intrattenimento settimanale” (el paquete semanal) consegnati direttamente a casa. Il sistema tollera questo traffico (non) regolamentato come rimedio al diniego del ludico che regna a livello sociale oppure non è consapevole di ciò che sta succedendo? Anche se così fosse, non si può dire che il videogioco circola in un ambiente illegale, perché Cuba è il paradiso della pirateria, ideale per un’arte di appropriazione. La proliferazione del libertinaggio ha finito per creare una sorta di rete alternativa, un social network dal gusto decisamente retrò. Un ciclo temporaneo che riprende e ripete la logica della colonizzazione dell’immaginario, tra conquistatori e conquistati. Tutto ciò rende Cuba un terreno fertile per gli studi culturali delle società offline del ventunesimo secolo.